Abstract
In una recente sentenza della Cassazione Penale, viene delineato il perimetro in cui si concreta l’azione dolosa del medico in caso di morte del paziente. Una decisione importante in un ambito su cui gravano le ombre delle ingiustificate indicazioni clinico-terapeutiche stimolate dagli interessi economici da cui è gravata l’organizzazione sanitaria nel suo complesso.
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È a tutti noto il caso di cronaca, purtroppo “nera”, degli interventi chirurgici eseguiti, senza indicazione terapeutica, in una Casa di Cura privata milanese, che aveva poi portato, per la morte di 4 pazienti, alla condanna all’ergastolo in primo grado avendo determinato, nel comportamento dei medici, la presenza di “dolo eventuale”. Successivamente, in appello, l’omicidio volontario era stato derubricato in omicidio preterintenzionale. Questa sentenza giungeva al giudizio della Suprema Corte per discutere la sussistenza dell’aggravante legata all’applicazione, nel caso di specie, delle circostanze aggravanti connesse all’applicazione del comma 2 dell’art. 61 del CP (aver agito per assicurare profitto a sé o altri). La Suprema Corte (V Sezione Penale, sentenza 9 dicembre 2020, n. 34893, Presidente De Gregorio, relatore Brancaccio) annullava la sentenza impugnata limitatamente all’esclusione dell’aggravante sopra citata.
Nella medesima sentenza, che è quella che vi proponiamo, gli ermellini esaminano in modo chiaro ed esaustivo le problematiche inerenti l’attribuzione corretta degli elementi del dolo o della colpa nell’attività medica che abbia effetti negativi sulla salute del paziente, richiamando i precedenti giurisprudenziali sul tema.
L’elemento centrale della sentenza risulta caratterizzato da queste parole dei Giudici:
“Risponde di omicidio preterintenzionale il medico che sottoponga il paziente ad un intervento (dal quale consegua la morte di quest’ultimo) in assenza di finalità terapeutiche, ovvero per fini estranei alla tutela della salute del paziente, ad esempio provocando coscientemente un’inutile mutilazione, od agendo per scopi estranei (scientifici, dimostrativi, didattici, esibizionistici o di natura estetica), non accettati dal paziente; al contrario, non ne risponde, nonostante l’esito infausto, il medico che sottoponga il paziente ad un trattamento non consentito ed in violazione delle regole dell’arte medica, quando nella sua condotta sia rinvenibile una finalità terapeutica, o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici, poiché in tali casi la condotta non è diretta a ledere, e l’agente, se cagiona la morte del paziente, risponderà di omicidio colposo ove l’evento sia riconducibile alla violazione di una regola cautelare”.
Al di là della specificità del caso, la sentenza risulta anche di estremo interesse nel ribadire i concetti contenuti nella Legge 24/17 circa il ruolo delle linee guida e delle buone pratiche cliniche, il cui uso deve comunque essere sempre commisurato al caso concreto.
QUI SOTTO TROVATE IL DOCUMENTO COMPLETO DELLA SENTENZA:
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