Abstract
In una recentissima sentenza, la Corte di Cassazione Civile dà il via libera al risarcimento del danno non patrimoniale in forma di rendita per i soggetti che hanno subito un “macrodanno”.
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È datata 25 ottobre la sentenza della Corte di Cassazione Civile Sezione III (Presidente Travaglino, Relatore Pellecchia 315742022) in cui gli ermellini, con un provvedimento che alcuni prospettavano e suggerivano da tempo, ritengono non solo corretto ma procedura virtuosa procedere al risarcimento del danno non patrimoniale alla salute in caso di macrolesioni, soprattutto se quest’ultime riducono l’aspettativa di vita. Tale tendenza giurisprudenziale era già comparsa in alcune sentenze di merito del Tribunale di Milano (vedi più sotto).
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ll fatto
Si tratta, manco a dirlo, di un caso di responsabilità medica relativo ad una tardiva diagnosi di meningo-encefalite in un bambino di pochi mesi che, nel 2008, era stato dimesso incautamente dal pronto soccorso dove era stato condotto dai genitori. La dimissione, peraltro, era stata effettuata da un soggetto che, pur prestando ivi servizio, non era neppure medico. Il successivo ricovero fu quindi ritardato e il bambino sopportò gravissime lesioni cerebrali tali da indurre altrettanto gravi menomazioni (stato vegetativo persistente da paralisi cerebrale, encefalopatia epilettica resistente alla terapia, grave scoliosi neurologica evolutiva già inducente due interventi chirurgici). I CTU nominati in prime cure dal Tribunale di Milano decisero la sussistenza di colpa professionale in sede di CTU esperita in sede di 696 bis e, nel 2018, la Corte condannò l’Azienda ospedaliera coinvolta e la sua assicurazione al pagamento di 1.220.000€ ca. come danno non patrimoniale al bambino (quindi l’invalidità si aggirava sul 90%) nonché di ca. 300.000€ per ciascuno dei due genitori a coprire sia il danno da lesione del rapporto parentale sia quello patrimoniale.
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La liquidazione del danno non patrimoniale da parte della Corte d’Appello
Le parti convenute promossero appello chiedendo, tra l’altro, la riduzione del risarcimento in ragione della ridotta aspettativa di vita dal bambino relata al suo grave stato clinico. La Corte d’Appello ribadì la decisione del giudizio di primo grado (colpa e corretta misura del risarcimento) concludendo, però, scrive la Cassazione, che “considerata l’impossibilità di stabilire in modo oggettivo una durata presumibile della vita e tenuto conto altresì del carattere permanente del danno…che la modalità del risarcimento in forma di rendita vitalizia meglio rispondesse alle concrete esigenze del danneggiato, garantendogli per tutta la durata della vita la percezione di quanto liquidato annualmente”. Sulla base di questa deduzione riferendosi al calcolo delle rendite vitalizie per Legge (DPR 131/1986), la Corte d’Appello di Milano ne concesse una pari a € 1283,53 mensili (quindi ca. 42 € al giorno).
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Il ricorso
Tralasciando quelli proposti dai convenuti, che, certamente, nel caso interessano meno, la sentenza della Cassazione passa poi ad esaminare il ricorso presentato dai genitori del bambino che, attraverso i loro legali, contestavano il riconoscimento del risarcimento in forma di rendita.
In sintesi i motivi che risultano dalla sentenza erano i seguenti:
- Contraddittorietà del pronunciamento della Corte d’Appello che avrebbe concesso la rendita a causa della riduzione dell’aspettativa di vita del minore in quanto determinata dall’agire dei convenuti.
- Scarsa motivazione della sentenza stante la gravità della situazione clinica del bambino – ormai ragazzo – che abbisognava conseguentemente di assistenza continua.
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Le decisioni della Cassazione
Innanzitutto, la Corte si esprime sostenendo la piena legittimità della decisione del Giudice in base all’art. 2057 CC che lascia, senza alcun dubbio, libero il Giudice di risarcire il danno sia in forma capitale che in forma di rendita.
Secondo gli ermellini, poi, la rendita dovrebbe essere costruita sul coefficiente di calcolo con riferimento all’età media della vita pur restando intatto ovviamente il capitale che la garantisca essendo esso determinato sulla base della vita media. Di conseguenza, secondo la Cassazione, nessun vantaggio ne trarrebbe il il responsabile. Certo, dicono i Giudici, che se la morte avvenisse ante tempus – cioè, sostanzialmente, in periodi inferiori alla vita media, venendo a cessare “il pregiudizio permanente…non sarebbe concepibile la ulteriore pretesa di continuare ad esigere un risarcimento“.
Circa, invece, le motivazioni per cui il risarcimento viene concesso in forma di rendita, la Cassazione – e forse questo è la parte più interessante della sentenza – sostiene che l’area del macrodanno è propriamente “il terreno di elezione per un risarcimento in forma di rendita, l’unico che consenta di considerare adeguatamente sotto molteplici aspetti, tra cui quello dell’effettività della tutela e della giustizia della decisione, l’evoluzione diacronica della malattia (ovvero la sua guarigione se possibile), così che l’antinomia tra l’astratta efficacia di tale strumento risarcitorio e la sua (mancata) applicazione in concreto appare segnata, in premessa, da una sorta di sostanziale quanto non giustificabile “diffidenza” nei suoi confronti”. E poco conta, peraltro, per gli ermellini l’istanza dell’avente diritto sulla forma in cui viene erogato il risarcimento perché è il Giudice che può decidere secondo il 2057 cc salvo l’illogicità della sua decisione o se vi fossero errori nei calcoli per la concessione della rendita.
I Giudici poi continuano a spiegare in modo articolato che non vi è alcuna immoralità nella concessione della rendita in relazione ai possibili vantaggi che ne trae il danneggiante, perché il danno non patrimoniale verrà risarcito fino all’ultimo centesimo sino al momento dell’annullamento del danno stesso che si concreterà con il decesso del danneggiato sottolineando altresì che i genitori hanno comunque ottenuto, per il loro danno jure proprio, un ristoro adeguato (i 330.000€ ciascuno di cui si diceva più sopra).
Quindi, in sintesi, queste sono le ipotesi che spiegano il ragionamento dei Supremi Giudici sul punto:
- se la durata della vita del danneggiato è uguale o maggiore alla durata della vita media, è il danneggiato stesso che realizza un lucro;
- se la durata della vita del danneggiato sarà, in concreto o presumibilmente inferiore alla durata della vita media, e ciò a causa delle lesioni, il responsabile sarà tenuto a risarcire il danno in forma di rendita – calcolato sulla durata della vita media di un soggetto sano – oltre al danno parentale subito dai genitori;:
- ove, infine, il danneggiato abbia una vita di durata inferiore alla media, ma ciò per cause del tutto indipendenti dalle lesioni, il responsabile che cessa di pagare la rendita non realizza alcun “vantaggio” patrimoniale: semplicemente, cessa il risarcimento perché cessa il danno.
Continua la Cassazione nel motivare le sue decisioni affermando che la rendita in sé è una forma “privilegiata di risarcimento” perché è l’unica che consente davvero di coglierlo nella sua essenza in quanto segue il danneggiato lungo tutto il decorso della sua vita residua stante che lo stesso è impostato secondo regole attuariali fondate sulla vita media futura, “a nulla rilevando che, nel caso concreto, egli abbia speranza di sopravvivere solo per pochi anni, ovvero che non risulti oggettivamente possibile determinarne le speranze di sopravvivenza, qualora tale ridotta speranza di sopravvivenza sia conseguenza dell’illecito”.
Quindi, nessuna immoralità, anzi, spiega la Cassazione:
“Emerge allora con tutta evidenza la non condivisibilità, in tema di risarcimento liquidato attraverso l’attribuzione di una rendita, delle considerazioni fondate su valutazioni di tipo morale di una tecnica risarcitoria. Se la storia recente della responsabilità civile ha indotto tanto la prevalente dottrina quanto la più attenta giurisprudenza (per tutte, Cass 26301/2021) ad evidenziare non pochi punti di contatto tra etica e diritto, segnatamente in tema di danni alla persona, la simmetria di tale relazione trae linfa dall’applicazione delle cosiddette clausole generali (il principio di correttezza, di equità, di buona fede, di diligenza) e dal costante riferimento al dettato costituzionale. Al di fuori del pur vasto territorio dei principi, specie costituzionali, non sembra legittimamente predicabile alcuna considerazione di moralità con riferimento a specifiche previsioni di legge, quando le forme del risarcimento rispondano tot court (come nel caso della rendita) a principi di effettività, di bilanciamento, di giustizia delle decisioni”.
La Suprema Corte sollecita anche una riflessione che giustificherebbe la concessione del risarcimento in forma di rendita, suggerendola per tutte le macrolesioni soprattutto nei soggetti socialmente deboli, disabili mentali ecc…Tutto ciò perché vi sarebbe il rischio che ingenti capitali possano andare colpevolmente o incolpevolmente dispersi non a favore del danneggiato. La Corte si esprime anche sulla qualità del debitore, suggerendo che la rendita è soprattutto indicata quanto questo sia un’assicurazione piuttosto un privato o un ente pubblico.
Gli ermellini limiterebbero comunque la concessione della rendita ai casi di macrodanno, perché in alcun modo opportuna nel caso in cui le lesioni siano di lieve o media entità, in quanto il relativo gettito sarebbe così esiguo da non arrecare alcuna sostanziale utilità al danneggiato.
La Cassazione sposa anche l’istituto della revisione della rendita, anche se, però, sembra leggersi solo in casi di aggravamento del quadro clinico, sul quale, tuttavia, dovrà essere il richiedente a dover a fornire tutte le prove in merito al Giudice che, comunque, potrebbe anche stabilire, qualora un Tribunale decidesse di ricorrere tale forma risarcitoria, di regolare al momento della sentenza le modalità con cui debba essere ammesso.
La sentenza continua citando la giurisprudenza europea ove, peraltro, si fa esplicito riferimento ad una revisione della rendita anche in caso di miglioramento delle condizioni di salute della vittima.
Infine, comunque, la sentenza viene cassata in quanto la rendita è stata stabilita in modo incongruo suggerendo l’adozione di un riferimento “paranormativo” stabilito in passato dal CSM (Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la determinazione del danno, Quaderni del CSM, 1990, n. 41 pp127 e seguenti).
Qui sotto potete leggere e scaricare l’intera sentenza
Di solito, qui finiscono i nostri articoli lasciando al lettore trarre conclusioni.
Come autore segnalatore della sentenza, mi è parso opportuno intervenire. Da un lato, perché quest’ultima sembra di portata rivoluzionaria se i Tribunali, come sono soliti fare, si adatteranno alle decisioni della Cassazione, in quanto, ovviamente, muterebbero in modo concreto le modalità con cui il macrodanno viene liquidato. Dall’altro, perché la decisione della Cassazione non è affatto immune da problematiche di carattere scientifico e, di conseguenza, medico-legali, che cercherò di segnalare.
Il tema della concessione della rendita per il risarcimento del danno a persona soprattutto nel caso di menomazioni importanti non è affatto nuovo. Già nel 1991, l’attuale Consigliere di Cassazione Marco Rossetti ne aveva parlato in modo diffuso sulla rivista dell’Associazione Melchiorre Gioia, Tagete (2 1999) (qui potete scaricare l’intero articolo) che ha rappresentato, peraltro, una vera guida per la sentenza in commento in quanto alcune porzioni dello stesso risultano presenti nella medesima. Negli ultimi 30 giorni, poi, l’argomento era diventato un must di molti Convegni di natura medico-legale. Ne aveva parlato diffusamente sostenendone la necessaria introduzione l’Avv. Maurizio Hazan alla Summer School della Consulta dei Giovani Medici Legali Universitari (27 settembre). Lo stesso Avvocato Hazan era intervenuto in merito durante il Convegno la “Sanità europea del futuro” tenutosi a Bruxelles il 12 e 13 ottobre scorso ove era altresì intervenuto, in favore della rendita, anche il Dott. Raffaele Gerbi, patron di una nota agenzia infortunistica romana la Gerbi Group che era tra gli organizzatori dello stesso convegno insieme all’On. Prof.ssa Luisa Regimenti del PPE, medico-legale, anch’essa propugnatrice di tale metodo liquidativo come sostenuto nel Convegno annuale dell’Associazione Melchiorre Gioia (vedi) tenutosi a Roma il 7 e 8 ottobre scorso ove il risarcimento in forma di rendita era uno degli argomenti in discussione.
È chiaro che tralascerò di affrontare il problema dal punto di vista giuridico della decisione. E tenterò, invero con difficoltà, di soverchiare i miei “bias” cognitivi in relazione al vissuto di innumerevoli accertamenti medico-legali su soggetti così gravemente danneggiati con i racconti degli immani sacrifici operati da famiglie vittime di tali terrificanti disgrazie e qui mi fermo per non incorrere nel pensiero di dover sentire riemergere il dolore sordo e continuo di chi vive quotidianamente questi drammi sulla propria carne.
Ma in questo caso, come appare evidente alla lettura del pensiero dei Supremi Giudici, si parla di diritto ma anche, se mi si permette, come già detto, di medicina perché il tema della concessione della rendita è unicamente connesso all’impossibilità di stabilire una durata della vita “media” in quanto teoricamente “inferiore alle aspettative“, che, nel caso di specie, è attribuibile direttamente alla lesione subita a causa di un comportamento colposo.
Certamente sappiamo che la morte, citando assai impropriamente il Vangelo di Matteo o anche per diretta frequentazione degli obitori, può arrivare “come un ladro nella notte”. Di conseguenza, per una questione di mera e assoluta Giustizia, la rendita dovrebbe essere il sistema più corretto per risarcire un danno biologico terminando la sua erogazione con la morte del danneggiato.
Ma quali sono, dunque, le criticità di questa sentenza sotto il profilo medico-legale?
il primo argomento è che non si fornisce un “valore tecnico” al concetto di macrodanno. Quindi se dovessimo generalizzare la decisione della Suprema Corte ad una casistica più ampia ci troveremmo di fronte a delle concrete difficoltà non avendo un perimetro definito per delimitare i confini di quest’ultimo. Se seguissimo pedissequamente i dettati degli art.i 138 e 139 del CdA, questo sarebbe delimitato dalla “franchigia” del 9%. In ambito INAIL abbiamo la “franchigia” del 15% di danno biologico che, se superata, fa passare dalla concessione del risarcimento in capitale a quella della rendita. E’ vero che la Cassazione escluderebbe la possibile concessione della rendita per danni di lieve o media entità. Ma le incertezze rimarrebbero comunque. Infatti, se affrontassimo la tematica sotto un profilo meramente clinico medico-legale, non avremmo realmente un limite di riferimento: un’invalidità biologica superiore al 25% è certamente un danno considerevole ma è un macrodanno? Se si vuol fornire un ulteriore esempio, è noto che in molte strutture assicurative, il danno diventa “grave” e passa di competenza a liquidatori appositamente preparati, quando supera i 100000 €. Un’altra metodologia, quindi, di natura squisitamente economica.
Quello che sembra di intuire, secondo la libera interpretazione del sottoscritto della sentenza in discussione, è che il macrodanno a cui pensa la Cassazione sia, da una parte, quello in cui il soggetto danneggiato potrebbe lamentare – a causa delle lesioni subite – una scarsamente prevedibile durata della sua esistenza anche qualora questa sia ricollegabile direttamente alla lesione subita. Oppure quando il risarcimento è considerato consistente a causa di una importante menomazione, ma la vittima sia socialmente o culturalmente disagiata o, ancora, abbia perso notevoli capacità cognitive. Tutto ciò nel timore, solo per fare un esempio, che soggetti che dovrebbero tutelare il danneggiato (genitori, parenti vari o altrettanto varie figure giuridiche dai tutori agli amministratori di sostegno) si approfittino del pingue bottino risarcitorio o lo disperdessero anche inconsapevolmente per mera incapacità. Appare del tutto ovvio che, nel secondo caso, la tutela del danneggiato da parte del Giudice sarebbe del tutto virtuosa una volta che tali circostanze si mettessero in evidenza a causa delle incongruità dei tutelanti. In ogni caso, anche qui, il giudizio rimarrebbe difficile. Però, e lascio ai giuristi una discussione sul punto, immagino che dovrebbero comunque esistere previsioni di Legge tese a garantire una sicurezza in questo senso: a che servirebbe allora il Giudice tutelare, solo per fare un esempio.
Ma qui, discutendo il caso trattato nella sentenza, non stiamo parlando di questo perché in nessun punto di essa si fa cenno ad una inadeguatezza dei genitori nel gestire il patrimonio che deriverebbe dal risarcimento. Nel merito, ciò che ha condizionato la decisione prima del Giudice dell’Appello, e poi della Cassazione, è l’impossibilità di conoscere la durata della sopravvivenza del leso che, comunque, si presume inferiore alla media anche se quest’ultimo dato, in fondo, rivestirebbe minore o addirittura nulla importanza.
Vorrei ricordare che, se questo è il metro di giudizio (impossibilità di conoscere la durata della vita media che potrebbe essere inferiore a quella reale), dovrebbe essere logico che qualsiasi soggetto portatore di malattie croniche con possibile incidenza sulle aspettative di vita dovrebbe essere liquidato in forma di rendita. Faccio un esempio: secondo la letteratura scientifica un malato con aneurisma aortico operato, a 4 anni dall’intervento, vede ridursi, statisticamente, la sua aspettativa di vita del 10% che passa quindi da ca. 80 a ca. 70 anni (Hernandez-Vaquero D, Silva J, Escalera A, et al. Life Expectancy after Surgery for Ascending Aortic Aneurysm. J Clin Med. 2020;9(3):615. Published 2020 Feb 25 doi: 10 . 3390 / jcm9030615). Lo stesso vale per i soggetti con ipertensione arteriosa nei quali l’aspettativa di vita si accorcierebbe di ca. 5 anni (Franco OH, Peeters A, Bonneux L, de Laet C. Blood pressure in adulthood and life expectancy with cardiovascular disease in men and women: life course analysis. Hypertension. 2005 Aug;46(2):280-6. doi: 10.1161/01.HYP.0000173433.67426.9b. Epub 2005 Jun 27. PMID: 15983235). Se, quindi, adeguassimo la liquidazione del danno biologico del macrodanno a situazioni patologiche che mutano l’aspettativa di vita media dovremmo forzatamente ricorrere allo strumento di liquidazione in forma di rendita.
Ma torniamo al caso in esame.
La Suprema Corte ci dice che il risarcimento in forma di rendita si adatterebbe in modo ottimale al caso di “un minore per il quale una prognosi di sopravvivenza risulti estremamente difficoltosa se non impossibile” evidentemente riferendosi al processo in esame. Questa deduzione è però smentita dalla letteratura scientifica.
Ci troviamo, infatti, di fronte ad un caso che può essere giudicato assai simile ad una “cerebral palsy“, avendo il bambino, al momento della meningo encefalite tardivamente diagnosticata, un’età di soli pochi mesi. Un soggetto con paralisi cerebrale infantile, secondo la letteratura medica disponibile, ha una vita media decisamente inferiore alla norma.
Non sono moltissime le pubblicazioni scientifiche che si occupano di questo tema, ma citando un lavoro classico a cui molti fanno riferimento (Strauss DJ, Shavelle RM, Rosenbloom L, Brooks JC (2008). Life expectancy in cerebral palsy: An update. Developmental Medicine & Child Neurology, 50:487-493) sulla base dei dati clinici riportati nella sentenza, diciamo che, escludendo la possibilità che il soggetto in questione venga nutrito per via parenterale, questo avrebbe una aspettativa di vita compresa tra i 16 e i 20 anni all’età di 15 anni (peraltro assai vicina all’età attuale del soggetto in questione). Stiamo discutendo di un dato non certo, ovviamente, ma che ha un senso clinico in ambito probabilistico. La sua applicabilità sotto il profilo medico-legale non sarebbe che la stessa che noi adopriamo quando dobbiamo discutere di nessi causali. Se un approccio simile è considerato improprio, allora qualsiasi deduzione su eventi in cui, a fini giudiziari, dovrebbe intervenire la cultura medica sarebbe da considerare scorretta o inaccettabile. E forse anche per questo che l’Azienda Sanitaria ricorse in appello sostenendo, appunto, che la durata della vita media di quel bambino era da considerarsi sensibilmente inferiore rispetto a soggetti della stessa età-
Faccio notare, per inciso, che dati statistici di questo tipo sono rinvenibili nella letteratura scientifica anche per altri tipi di comuni lesioni che interessano spessissimo la categoria del risarcimento dei macrodanni. Si può calcolare, per esempio, che l’aspettativa di vita di un soggetto che è andato incontro ad una lesione traumatica cerebrale, che lo renda completamente dipendente da intervento di terzi, è ridotta in maniera considerevole. Per esempio, un soggetto di 40 anni che si trova in questa categoria ha solo il 28% di probabilità di raggiungere i 60 anni (Brooks JC, Strauss DJ, Shavelle RM, Paculdo DR, Hammond FM, Harrison-Felix CL. Long-term disability and survival in traumatic brain injury: results from the National Institute on Disability and Rehabilitation Research Model Systems. Arch Phys Med Rehabil. 2013 Nov;94(11):2203-9. doi: 10.1016/j.apmr.2013.07.005. Epub 2013 Jul 16. PMID: 23872079).
Ora se riteniamo il probabile dato di premorienza come corretto – e bisognerebbe smentirlo con altre osservazioni di carattere scientifico che ne contestino la validità – potremmo affermare che, sempre probabilisticamente, il macroleso di cui si sta parlando morirà ad un’età compresa tra i 31 e i 35 anni. Certo, potrebbe morire per altre cause ad esempio di natura traumatica. Queste appaiono tra le poche, sempre probabilisticamente parlando, in grado di tranciare ogni nesso eziologico con la lesione subita. Ma proprio la sua condizione patologica sarebbe di per sé una limitazione rispetto all’incorrere di questo tipo di eventi, anche considerando la relativa probabilità di accadimento. Ad esempio – sono calcoli dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità) – il tasso di mortalità per 100.000 residenti in Italia per incidente stradale è del 12,6 (ca. 0,0001 %) ed è facile sostenere che un soggetto tetraplegico non va in giro frequentemente in auto e certamente non sale su moto o biciclette e, ancora, le sue uscite in strada su carrozzina sono, comunque, fortemente limitate.
Dunque, se affrontiamo il problema sotto un profilo meramente scientifico – di dottrina e giurisprudenza non parlo – l’assicurazione che tutela l’ente ospedaliero o l’azienda sanitaria inevitabilmente con una rendita, che cessa con la morte del leso, risparmierebbero certamente se i “conti” fatti fossero quelli della Corte d’Appello di Milano.
Infatti, secondo i calcoli, al macroleso spetterebbero ca. 1300 € al mese ovvero 15600 € l’anno. Il totale esborso per il debitore, secondo dati suggeriti dalla letteratura, sarebbe compreso tra i 483600 € (morte a 31 anni) e i 546000 € (morte a 35 anni) ovvero tra i 2/3 e meno della metà di quelli che sarebbero stati necessari sborsare se il risarcimento fosse stato concesso in capitale.
Assai diverso, invece, sarebbe il risarcimento in forma di rendita se si utilizzasse la metodologia proposta dalla Cassazione, che indica, quale riferimento, i Quaderni del CSM, 1990, n. 41 pag. 127 e seg.. Nel caso di specie, si parla di un bambino di pochi mesi che quindi non aveva ancora raggiunto l’anno di età, il coefficiente di capitalizzazione – secondo la letteratura citata – sarebbe pari a 37,9045. Dividendo il capitale (ca. 1200000 €) per il suddetto coefficiente, la rendita annuale diventa pari a ca. 31658 €. Di conseguenza, quella mensile dovrebbe essere pari a ca. 2638 € che è ben più alta di quella concessa dai Giudici di Milano. Se applichiamo tale deduzione ai dati disponibili derivati dalla letteratura scientifica, per una morte del macroleso a 31 anni, gli esporsi dei debitori complessivi sarebbero pari a 981398 € mentre se il decesso avvenisse a a 35 anni si arriverebbe a ca. 1108030 €. Il risparmio ci sarebbe ma sarebbe più contenuto.
Ma, un’altra domanda, che si può porre è questa: è corretto calcolare il capitale sulla base di un dato statistico di tipo “medio” (tavole di mortalità) quando in realtà sappiamo che probabilisticamente il soggetto vivrà molto di meno ovvero tra i 2/3 e la metà rispetto all’aspettativa di vita nazionale? Allora, perché il capitale, se si pensa che il danno sia permanente, deve essere calcolato su tale fondamento che non è quello che si riferisce al soggetto in questione? Il capitale, operando tale deduzione, diventerebbe nettamente superiore ai 1800000 €. E’ una domanda che ha senso e la sentenza non dà una risposta a questo dubbio continuando a riferirsi ad una datazione incerta di una morte che è invece da considerarsi probabilmente prematura se stiamo ai riferimenti proposti in precedenza.
E ancora. Ma se la morte anticipata è probabile, perché la rendita non può essere erogata calcolandola sulla base dei valori utilizzati per risarcire l’invalidità temporanea fino alla morte? Nessuno, dico proprio nessuno, avrebbe dei dubbi se un soggetto che morisse dopo un anno di coma indotto da una grave lesione encefalica traumatica subita per colpa di altri, venisse risarcito calcolando la somma sulla base di una temporanea al 100 % pari alla durata della sua esistenza dall’erogazione della lesione fino alla morte liquidando poi agli aventi diritto il danno da perdita parentale. Se accogliessimo tale deduzione per la vicenda in discussione, calcolando un’invalidità temporanea pari al 90 %, ovvero alla misura del danno biologico permanente, riferendosi, data l’importanza dello stato invalidante, ai valori massimi delle tabelle di Milano (149 € giornaliere) pari, quindi, a € 134.10, il totale annuale di una rendita calcolata su tale principio, sarebbe pari a 48946 € annui, che moltiplicati per la presumibile durata della vita del macroleso in questione farebbe salire il capitale a 1517341 € (morte a 31 anni) o a 1713110 € (morte a 35 anni). Quindi l’esborso per il debitore sarebbe molto maggiore, almeno in via probabilistica.
È vero certamente che l’immobilizzazione di una grossa somma per una struttura finanziaria come quella assicurativa è un problema però, alla fine, il risparmio c’è, eccome anche con i conteggi proposti dalla Cassazione basati sulle tavole di mortalità. E ancora, appare probabile, che, comunque, il macroleso, se non si propendesse per conteggi diversi, non godrà dell’intero risarcimento ma solo di una sua parte. Ma dunque, se c’è risparmio, non si comprende perché questo “beneficio” dovrebbe spettare, preferibilmente scrive la Cassazione, ad un’azienda privata e non ad una pubblica. Probabilmente perché una assicurazione ha certo mezzi organizzativi migliori per garantire l’erogazione della rendita ma, allora, nel caso di specie, il risparmio realizzabile si concretizzerebbe solo per la struttura privata. E se quella pubblica non fosse in grado di garantirla, come del tutto probabile almeno allo stato, nel caso di compartecipazione a questo tipo di danno con l’assicurazione, allora quest’ultima dovrebbe pagare la sua parte in capitale mentre l’assicurazione dovrebbe corrisponderla in rendita. Non tenendo conto, peraltro, che moltissime regioni italiane (cito il Piemonte, le Marche, l’Emilia Romagna, la Toscana, la Liguria) sono in completa autoassicurazione.
Una delle conseguenze della sentenza, se questo è l’orientamento della suprema Giurisprudenza, dovrebbe essere una immediata e sostanziosa discesa del valore del premio per le polizze che garantiscono la responsabilità civile soprattutto quelle che coprono la malpractice medica: penso ai colleghi specialisti in ostetricia e ginecologia o agli anestesisti o comunque a tutti quelli che esercitano attività chirurgiche.
Dunque, a mio parere, la sentenza presenta indubbie criticità. Le sintetizzo qui sotto in modo schematico interessandomi, squisitamente, soltanto dell’aspetto medico-legale:
- La Cassazione per giustificare l’utilizzo della rendita si appoggia ad un dato probabilistico (tavole ISTAT sulle aspettative di vita) non considerando i rilievi della letteratura scientifica che invece ne forniscono altri, profondamente diversi, indicando che, probabilisticamente, il decesso del danneggiato avverrà prima del tempo.
- Se questo è vero, allora l’erogazione della rendita conseguente al danno biologico sarebbe legittima ma dovrebbe essere accompagnata dal risarcimento di un danno da perdita parentale o, comunque, in base ad una prospettiva diversa in quanto è prospettabile probabilisticamente che la lesione inferta al danneggiato ne ridurrà l’esistenza. Si dirà sul punto, e la sentenza lo afferma, che questo risarcimento è già stato erogato riferendosi ai 300000 € concessi ai genitori che, peraltro, comprenderebbe però anche un danno di natura patrimoniale. Ma quei denari – tutti o in parte – non si riferiscono ad un danno da perdita parentale ma ad un risarcimento per una lesione del rapporto parentale ovvero a due forme risarcitorie diverse.
- Non si ha alcuna sicurezza circa la determinazione del macrodanno in punto di sua quantificazione relativamente all’invalidità biologica. Quando terminano i valori “medi” in cui, ancora, il risarcimento può essere garantito in capitale? Non lo sappiamo.
- Qual’è il metodo per costituire la rendita? Si pensi solo che le tavole di mortalità su cui è costruita la metodologia suggerita dalla Cassazione si riferiscono al 1981. Certamente, oggi, i valori sono cambiati e i coefficienti sono ovviamente variati. Come già detto, la soluzione suggerita dalla Cassazione, per il calcolo della rendita fa riferimento ad un documento per in cui il coefficiente di capitalizzazione è calcolato sulla base delle tavole di mortalità ISTAT del 1981 cioè di più di 40 anni or sono. Pensate che l’aspettativa di vita di un italiano oggi è di ca. 80 mentre nel 1992 era di 74 (vedi).
- La sentenza consentirebbe l’instaurarsi di una disparità tra i debitori nel caso di una compartecipazione del danno tra azienda sanitaria e la struttura assicurativa nella concessione della rendita. La prima non sarebbe in grado di erogarla e dovrebbe versare il risarcimento in capitale contrariamente alla seconda. Facili da immaginare le conseguenze pratiche. In tutte le regioni in autoassicurazione in cui ci si trovasse a risarcire un simile danno, questo sarebbe erogato in capitale al contrario di quelle in cui ci si appoggia a strutture assicurative benché con franchigie elevate. La conseguenza pratica positiva dovrebbe essere una drastica riduzione dei premi ed un immediato rientro delle compagnie nel settore della sanità pubblica. Ma questo avverrà davvero? E quanto tempo occorrerà perché questa situazione si concretizzi? E nel frattempo che si fa? Ci sarà una disparità nelle modalità di risarcimento dei danneggiati tra regione e regione? E il legislatore che farà quando è, come diceva il Giusti, soprattutto in questo periodo di crisi, “in tutt’altre faccende affaccendato”?
- E certamente la sentenza stimola un aumento del contenzioso. Ciò ne abbiamo suggeriti diversi approcci al problema Potremmo poi concentrarsi in merito alla metodologia di calcolo della rendita, messa peraltro in evidenza dalla stessa decisione della Cassazione per cui la Corte d’Appello ha commesso un errore che, rifatti i conteggi, parrebbe grave sotto il profilo dell’entità del risarcimento mensile. In più, certamente, anche tra i Giudici, non esiste un’uniformità di comportamento. Prendiamo, quale esempio una delle sentenze di merito citate dalla Cassazione, quella del Tribunale di Milano del 2019 anche da noi pubblicata (vedi più sotto). Qui, per un soggetto di 80 anni, si è costruita, sulla base del capitale calcolato per il danno biologico permanente, una rendita pari a ca. 5300 € mensili. Se, al contrario, adoprassimo la metodologia utilizzata dalla Cassazione, la quota mensile avrebbe dovuto essere intorno ai 7200 €. Quale strumento avrebbero le parti per accordarsi sul metodo. Quello della Cassazione si dirà che è certamente fondato su elementi non attuali. E, in più, non sarebbe forse prospettabile la richiesta di un danno da perdita parentale se la morte del danneggiato fosse ricollegabile alla lesione imputabile all’evento colposo? Un evento colposo, che, sempre probabilisticamente, fin dalla stabilizzazione delle conseguenze lesive sarebbe già in relazione causale con una riduzione dell’aspettativa di vita. SI dirà che un risarcimento di un danno da lesione parentale è pur stato concesso nel caso di specie ma il danno da perdita parentale è forse la medesima fattispecie? Tutte deduzioni che se contrapposte non possono che scatenare un aumento della litigiosità.
Finisco qui sperando di non aver sbagliato i molti calcoli che ho inserito in questo mio commento. Il mio è forse solo un tentativo, immagino disperato, di considerare il problema sotto un profilo che ha comunque a che fare con la scienza medica, soprattutto quella medico-legale, e non solo con il diritto. Non mi occupo di morale. Non voglio parlare di etica. Vorrei solo accendere un lume di “ragione” legato a quello che la medicina ci può dire in casi come questo. Non ho idea se questo possa essere utile alla Giustizia. Speriamo comunque che ciò induca ad un’attenta riflessione su un tema complesso che, a mio parere, la Sentenza della Cassazione non ha affrontato, purtroppo come accade da molto tempo, confrontandosi con quelli che fanno il nostro mestiere.
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