Con l’ordinanza n. 16348 del 12 giugno 2024, la Corte di Cassazione torna ad affrontare il tema del danno da perdita della vita, osservando che il bene vita, in quanto tale, è un bene autonomo fruibile solo in natura dal titolare. Ne consegue che in tema di sinistri stradali, ai fini del risarcimento del danno da morte iure hereditatis, ai congiunti della vittima, è necessario dimostrare che il de cuius, pur in stato di coma profondo, abbia avvertito il disagio per la morte imminente.
Avvertire la “fine imminente”
In altre parole, il danno potrà essere riconosciuto solo se si prova che la vittima, quand’anche in coma, abbia avvertito la fine imminente, mentre non potrà trovare ristoro la perdita del bene vita, in quanto fruibile in natura solo dal titolare.
Il fatto
Nel caso di specie, a causa di un incidente stradale, la vittima cadde in stato di coma profondo al momento dell’urto e sopravvisse solo tre giorni. La Corte regolatrice afferma che non sia da escludersi aprioristicamente che ai congiunti possa essere riconosciuto il risarcimento di un danno da morte, in quanto eredi della de cuius, ma bisogna dimostrare che la vittima, nonostante lo stato di incoscienza, abbia provato il disagio per la fine imminente. L’auto su cui viaggiava la ragazza, guidata da un uomo, finì contro un albero e la morte celebrale della vittima venne dichiarata pochi giorni dopo.
Bene-vita e Bene-salute
Non giova, precisano gli Ermellini, agli eredi invocare la sentenza n. 1361/14 della Cassazione, secondo cui è stato ritenuto predicabile il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita, in quanto categoria autonoma e trasmissibile agli eredi. Poco dopo, infatti, il contrasto giurisprudenziale è stato definito dalle Sezioni Unite civili con la sentenza n. 15350/15, la quale ha affermato che un conto è il bene-vita, un altro il bene-salute. Diverse sono le tutele ed affinché la perdita della vita costituisca un danno risarcibile, risulta necessario che a patirla sia un soggetto legittimato a far valere il proprio credito risarcitorio, ciò che non può essere allorquando la morte segua a breve le lesioni personali cagionate dal sinistro, perché il credito non è entrato nel patrimonio della vittima. Quando la morte è cagionata da un atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico “vita”, che costituisce un bene autonomo, fruibile soltanto in natura da parte del titolare e che non può essere reintegrato per equivalente.
Danno terminale e danno catastrofale
Sul punto, occorre precisare che in caso di decesso della vittima, i suoi familiari hanno diritto ad ottenere iure hereditatis, cumulativamente o alternativamente, solo due distinte tipologie di danno non patrimoniale: il danno biologico terminale ed il danno morale catastrofale. Il primo presuppone che intercorra “un apprezzabile lasso di tempo” tra le lesioni colpose e la morte cagionata dalle stesse ed è da liquidarsi in relazione alla menomazione dell’integrità fisica patita dal danneggiato sino al decesso e non necessita della consapevolezza del proprio stato. Tale danno dà luogo ad una pretesa risarcitoria trasmissibile iure hereditatis, da commisurarsi in termini di inabilità temporanea; occorre, tuttavia, adeguare la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero, sfociando nella morte del soggetto.
Questa voce di danno iure hereditatis è configurabile solo se, tra la lesione e la morte da essa derivante, intercorra un “apprezzabile lasso temporale”, non potendosi ammettere il danno biologico terminale in caso di morte immediata. Occorre, in sostanza, una netta separazione tra la lesione e la morte da essa derivante. in caso di morte immediata, infatti, il danno biologico non è in grado di entrare a far parte della sfera giuridica del soggetto: è, cioè, adespota, ossia privo del suo legittimo titolare che, pertanto, non lo può trasmettere, in via di successione ereditaria, ai propri familiari.
In ordine ai criteri di liquidazione, si dovrà fare riferimento alle Tabelle elaborate dall’Osservatorio di Milano sul “danno terminale”.
Le differenze tra danno terminale e danno catastrofale
Il danno biologico terminale, peraltro, va ben distinto dal cosiddetto “danno catastrofale”.
Qualora il sinistro mortale abbia determinato il decesso non immediato della vittima e quest’ultima abbia avuto consapevolezza della propria fine, al danno biologico terminale (consistente, appunto, in un danno biologico da invalidità temporanea totale, che si protrae dalla data dell’evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una componente di sofferenza psichica, che prende il nome di “danno catastrofale” (detto anche da lucida agonia).
Il danno catastrofale viene ricondotto, dalla giurisprudenza più recente, al “danno morale soggettivo”, inteso come cosciente e lucida percezione, nonché attesa, dello spegnimento della propria vita, trattandosi di pregiudizio che presenta, all’evidenza, una notevole intensità in termini di sofferenza.
La paura di dover morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine è imminente; sicché, in difetto di tale consapevolezza, non è nemmeno concepibile l’esistenza del danno in questione a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata dalle lesioni.
Quanto al danno biologico terminale, rileva il “fattore tempo” e, quanto al danno morale catastrofale, rileva “la consapevolezza della fine imminente”.
Ne consegue che, in caso di morte immediata (o, comunque, sopraggiunta in assenza di un apprezzabile lasso di tempo dalla lesione) ed in mancanza di prova della consapevolezza dell’essere sul punto di morire, non sarà liquidabile agli eredi nessuna forma di risarcimento di danno non patrimoniale iure hereditatis.
Qui sotto potete scaricare in forma completa l’Ordinanza citata nell’articolo