Continuando (vedi articolo precedente) a commentare la ormai arcinota sentenza n. 6386 del 2023 della III Sezione della Cassazione Civile non si può affermare che la stessa va letta, comunque, in modo costruttivo.
Prova presuntiva della contrazione dell’infezione
Il suo fine, infatti, nient’altro è che il tentativo di definire la strada per escludere responsabilità solo in quei casi dove il debitore (la struttura sanitaria) ha correttamente adempiuto all’obbligo contrattuale, ciò al fine di una tutela massima nei confronti del paziente danneggiato. E su questo non si può far altro che condividere il punto di vista.
Tuttavia si vogliono comunque esprimere due considerazioni critiche, poiché il “decalogo probatorio” viene preceduto da un passaggio logico ben preciso: “a fronte della prova presuntiva della relativa contrazione in ambito ospedaliero (nella specie, non contestata in causa), ed ai fini della dimostrazione di aver adottato, sul piano della prevenzione generale, tutte le misure utili alla prevenzione delle infezioni ospedaliere”.
La prova presuntiva della relativa contrazione in ambito ospedaliero viene data per scontata dalla definizione stessa di infezione correlata all’assistenza1. E questo costituisce un bias che la Cassazione non ha ancora risolto perché, molto probabilmente, non è mai stata interrogata sul vero punto critico delle ICA: il contagio.
Il contagio come problema centrale
Un’infezione non è altro che la manifestazione clinica di una malattia che prende origine da un contagio, ovverosia il momento in cui il patogeno entra in contatto con l’organismo.
Ciò che in un contesto giuridico viene impropriamente definito “contrazione dell’infezione” altro non è se non il contagio, che può essere esogeno, per cui esistono misure atte a contenere il più possibile il rischio che esso si verifichi (e per cui, in caso di realizzazione, è corretto presumere che possa esservi stata una prevenzione non ottimale), ma anche endogeno, per cui non esistono misure di contenimento del rischio in quanto, come si è già detto, l’essere umano ha un microbioma che lo rende inevitabilmente esposto ad una quota di rischio non altrimenti evitabile.
Il fattore cronologico che notoriamente viene richiamato nei casi di ICA, in realtà deriva dall’analisi del periodo di incubazione; questo perché la latenza tra contatto con il patogeno e manifestazione clinica può spesso delinearne la provenienza (esogena o endogena). Più lo sviluppo di una complicanza settica è ravvicinato ad un intervento, più è probabile che si tratti di una contaminazione perioperatoria; al contrario, più tempo passa tra intervento chirurgico e sviluppo di complicanza settica, più è probabile, al contrario, che si tratti di una contaminazione endogena successiva incolpevole.
La multiresistenza antibiotica
Il fattore qualitativo è fonte di fraintendimento ancor più grossolano: la multiresistenza antibiotica è ormai una caratteristica comune di molti patogeni acquisiti in comunità, per cui la sola presenza di un patogeno multiresistente non può automaticamente portare a presumere che sia stato contratto in ambiente ospedaliero.
In un simile contesto, ciò che occorre chiedersi è se in giurisprudenza sia mai stata affrontata la tematica del contagio, più che quella dell’infezione.
Nei quesiti posti ad un Giudice di merito non si rinvengono richieste specifiche sull’inquadramento del contagio e sulla tipologia del patogeno coinvolto, cosa che porta a preumere che negli atti stessi delle parti si dia “troppo” per scontato un argomento che così chiaro non è. Almeno alla giurisprudenza.
Passiamo, a questo punto, a considerare il secondo spunto di riflessione critica.
Le finalità della sentenza di Cassazione
Nel passaggio logico della sentenza citato in precedenza viene chiaramente affermato che la “contrazione dell’infezione”, nel caso specifico, non era stata neppure contestata, il che porta a riflettere sulla reale finalità della sentenza: necessità di tutela estesa nei confronti di un potenziale soggetto danneggiato o volontà di definire le regole di accertamento della responsabilità contrattuale in quei casi di ICA troppo spesso fonte di accesi contrasti? Forse, entrambi.
Da questo si deve, a mio avviso partire per chiedersi se, in realtà, il dialogo tra mondo clinico e mondo giuridico non debba partire dai processi di merito, dove si costruiscono le prove e si portano alla luce le problematiche di cui discutere.
Infezione da MRSA esogena o endogena?
Nelle sentenze appellate che hanno portato la terza sezione a pronuciarsi con la n. 6386 del 2023 viene chiarito che il patogeno responsabile dell’infezione fatale che ha complicato il decorso clinico di una paziente, sottoposta ad intervento oculistico e che ha sviluppato un ematoma toracico con fratture costali a seguito di caduta accidentale in reparto, sarebbe uno Staphylococcus aureus meticillino resistente (MRSA). Si tratta di un patogeno caratterizzato da una resistenza che, ormai, si rinviene molto spesso in comunità, per cui l’ipotesi di una provenienza dall’ambiente nosocomiale appare quantomai fumosa, questo per due ragioni principali:
- Spesso MRSA si rinviene a livello della mucosa nasale (ma non solo), come colonizzante anche in soggetti che provengono dalla comunità, quindi non unicamente “contraibile” in ambito ospedaliero.
- Un contagio colpevole da MRSA presupporrebbe che questo patogeno fosse presente su dispositivi medici o, più facilmente, che fosse trasmesso da un paziente ad un altro attraverso un operatore che non rispetta le misure di prevenzione previste (su tutte, il lavaggio delle mani).
Difficile immaginare che in questo caso, in cui abbiamo una paziente che sviluppa un ematoma che resta confinato a livello sottocutaneo, possa esservi stato il passaggio di MRSA per contatto tramite un operatore, appare semmai più probabile che il contagio possa essere avvenuto per via ematogena (in modo ovviamente inevitabile).
Una sentenza della XIII Sezione del tribunale di Roma
Richiamo, a questo punto, l’attenzione su un’altra sentenza di merito della XIII sezione civile del Tribunale di Roma (Presidente Dott. Cisterna), che affronta il caso di una paziente sottoposta ad intervento di asportazione di neurinoma associato a meningioma, che a breve distanza viene complicato da un’infezione da Klebsiella pneumoniae con spettro di resistenza crociata agli antibiotici (MDR).
Si tratta di un patogeno che, classicamente, può essere trasmesso in un contesto di degenza ospedaliera, per contatto diretto con un paziente colonizzato o infettato (sempre attraverso un operatore sanitario che, in linea teorica ma presuntiva, non rispetta le misure di prevenzione previste), ma può anche risultare normale componete della flora endogena (anche con specifici spettri di resistenza antibiotica, sviluppati, ad esempio, a seguito di pregresse terapie).
E’ da considerare l’antibiotico resistenza?
Nella sentenza si legge un passaggio per certi versi innovativo in tema di supporto probatorio richiesto: “affinché la tesi dell’ inevitabilità dell’ICA possa avere efficacia scriminante nel comportamento della struttura occorrerebbe, per un verso, fornire la dimostrazione del numero di casi registrati nel reparto di ricovero del paziente che ha contratto l’infezione in un range temporale adeguato per fornire la prova di un contenimento e/o di una episodicità del contagio, per altro, dimostrare che abbia concorso all’esito letale dell’infezione e al successivo decesso un’antibiotico-resistenza del paziente stesso dimostrata dall’inefficacia delle somministrazioni ospedaliere o una sua congenita immunodeficienza”.
La sentenza, invero, riprende un punto di vista della XIII Sezione consolidato nel tempo (si leggono osservazioni dello stesso tenore in sentenze del 2015).
Endogeno e esogeno non basta più
Ciò che occorre valutare per dirimere la natura del contagio – se esogeno “colpevole” o endogeno “incolpevole” – è la presenza, nell’arco dello stesso periodo di ricovero che si sta considerando, di altri isolamenti analoghi, in grado di dimostrare la possibile trasmissione per contatto che, da un punto di vista contrattuale, qualifica l’inadempimento. Con l’automatica considerazione che, in caso di esclusione, è plausibile sostenere la provenienza endogena e l’inevitabilità dell’evento.
Beninteso, nel caso affrontato dalla XIII Sezione, la struttura è stata comunque giudicata responsabile, poiché non ha adempiuto all’onere probatorio, che, tuttavia, viene chiarito avere specifici requisiti, ben delineati dal Collegio tecnico nominato dal Giudice: “La struttura sanitaria, in rapporto alla gestione dei pazienti e del loro ambiente, ha pertanto l’obbligo di attuare la prevenzione e il controllo delle infezioni nosocomiali, adeguandosi alle più moderne regole di igiene del tempo, cioè: 1. verificare l’applicazione delle linee guida attraverso operatori seriamente formati, 2. applicare equilibrati sistemi di controllo dei risultati, 3. attuare un intervento attivo e tempestivo di stewardship antimicrobica delle ICA”.
Non si tratta, dunque, di responsabilità oggettiva, ma al tempo stesso sono ben definiti i presupposti su cui fondare il giudizio di adempimento contrattuale da parte della struttura (perché, va ricordato, il tema del rischio infettivo va sempre parametrato sul rapporto contrattuale che governa il contenzioso giudiziario tra una struttura e un paziente danneggiato): puntuale attività di formazione, assidua attività di sorveglianza e controllo (mediante monitoraggio dei patogeni sentinella e isolamento dei pazienti infettati o colonizzati), approfondita attività di stewardship per definire le specifiche necessità di sorveglianza e le migliori misure atte a contenere il rischio.
Una maggiore concretezza del Tribunale rispetto alla Cassazione
Lo schema proposto è sicuramente più sintetico ma, forse, più concreto rispetto a quello fornito dalla Cassazione (che, invero, riprende parte di questo indirizzo in alcuni punti del decalogo, ad esempio quando prevede l’attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica, la sorveglianza basata sui dati microbiologici di laboratorio e la redazione di un report da parte delle direzioni dei reparti da comunicare alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella).
Ma questa non vuole in alcun modo essere una critica nei confronti della Suprema Corte, semmai una constatazione del fatto che finora il problema non è stato portato alla sua attenzione in un’ottica differente, che francamente appare più razionale.
Del resto, è pacifico che un giudizio di merito possa approfondire meglio questa tematica, laddove un confronto tecnico tra collegio peritale e consulenti delle parti sia correttamente impostato e volto ad approfondire la tematica nel modo più costruttivo possibile. Il problema è, però, farlo pervenire all’attenzione della Cassazione.
Iure proprio e iure heredatis anche nelle ICA
Sia consentita, poi, una segnalazione su un ulteriore passaggio specifico della sentenza, che nella parte conclusiva affronta il tema del riconoscimento del danno risarcibile, distinguendo la componente iure proprio da quella iure hereditatis.
In quest’ultimo caso, il regime probatorio previsto dal rapporto contrattuale prevede che, in assenza di prova liberatoria da parte della struttura debitrice, debba essere riconosciuta una responsabilità e il danno ad essa correlato.
Ma, nel caso del danno richiesto per perdita del rapporto parentale, il regime probatorio da seguire è quello extracontrattuale, da cui discende che, a prescindere dal riconoscimento di un nesso di causa tra decesso-infezione e specifica prestazione medica, incombe su chi agisce in giudizio la prova dell’elemento soggettivo (dolo o colpa), pena, in caso di mancato specifico addebito (e di semplice allegazione), il mancato riconoscimento del danno iure proprio dei parenti.
Una riflessione conclusiva
Sicuramente c’è ancora tanto lavoro da fare: nella pratica clinica, la prevenzione del rischio infettivo va avanti (in molte realtà in modo assai virtuoso); nel contesto giurisprudenziale, invece, la discussione sembra ancora essere ferma su un piano molto più aleatorio e non calata nel concreto.
In questo senso, ci si auspica che il confronto possa essere portato avanti in modo costruttivo, sia in ambito congressuale che in ambito giudiziario (anche se, in quest’ultimo caso, gli interessi economici delle parti contribuiscono inevitabilmente a creare storture del processo riflessivo).