La valutazione sulla sussistenza o meno di comportamenti colposi degli operatori sanitari come previsto dalla cosiddetta Gelli Bianco è legata a una delle disposizioni, almeno a mio avviso, più “scivolose” contenute nel dispositivo della L. 24 in relazione a quanto disposto dell’art. 5. In questo, sintetizzando, si stabilisce che tutta l’attività sanitaria (prevenzione, diagnosi, cura ecc..) dovrà essere conforme, “salvo le specificità del caso concreto” alle “raccomandazioni contenute nelle linee guida” prodotte dalle Società Scientifiche autorizzate dal Ministero, approvate dall’organismo Sistema Nazionale delle Linee Guida, pubblicate, insieme agli aggiornamenti del SNLG stesso, sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità.
Uno dei “goal” della Legge è dichiaratamente quello di costituire, sul modello del NICE britannico (National Institute for Health and Care Excellence), un grande contenitore di metodologie di approccio clinico, che si rifanno in primis alla definizione di “linee guida” scientificamente intesa nella lunga linea di pensiero e di studio della evidence based medicine. Tale linea di studio è iniziata, diciamo, negli anni 90 e proseguita fino ad oggi ove, peraltro, le idee si sono fatte più confuse e qualche voce di dissenso si è levata, in ambiente di ricerca, sull’assoluta bontà dell’EBM nell’indirizzare il comportamento sanitario.
Ecco di seguito, comunque, quelle che dovrebbero essere le caratteristiche delle linee guida nel nuovo piano legislativo citando testualmente il libro dell’On. Gelli.
1) avere una finalità esclusivamente o prevalentemente clinica orientata al miglioramento dello stato di salute
2) essere informate (non dettate) da una accurata e sistematica revisione delle evidenze disponibili
3) offrire una chiara valutazione del bilancio e dei benefici e danni fra opzioni terapeutiche alternative
La produzione delle linee guida, per la L. 24, viene affidata, essenzialmente, alle società scientifiche nazionali. Queste saranno accreditate dal Ministero della Salute attraverso disposizioni già emanate per mezzo di uno dei decreti attuativi della Legge già emessi e sulle quali le papabili società scientifiche ufficiali hanno già “lavorato”. Vi è da dire che le disposizioni contenute nel decreto attuativo di cui stiamo parlando sono state stravolte a qualche giorno dal termine per la presentazione delle domande di accreditamento, anche per l’intervento, con argomentazioni nient’affatto speciose, della Federazione Italiana Società Medico Scientifiche (sulle quali, solo per brevità, non mi intrattengo).
Non si può però non considerare come questo intervento “in zona Cesarini” sia da ritenere figlio di un approccio piuttosto semplicistico alla problematica, stante il cambio, davvero in corsa, di molti dei parametri che erano stati precedentemente individuati. Ma al di là di questo commento che potrebbe avere anche nessuna importanza – beh se c’era da correggere si è corretto – ciò che desta maggiore perplessità sono alcuni argomenti di base sui quali mi par giusto porsi delle domande e operare delle riflessioni che di seguito vi propongo.
Le linee guida fanno parte di un sistema clinico e solo clinico. Studiano il modo per affrontare al meglio delle particolari situazioni patologiche. Ma possono essere ritenute un parametro da tener in conto in un contesto di natura giurisdizionale soprattutto se innestate all’interno di un programma legislativo che le vede come fonti “normative” e non esclusivamente scientifiche? La Legge, relativamente a questo particolare, specifica molto bene, agli art. 5 e 6, quali siano le sue reali intenzioni. Si dispone, infatti, che le modalità di comportamento e la non punibilità in ambito penale facciano specifico riferimento non alle linee guida in genere, ma a quelle promosse dalle Società Scientifiche approvate dal Snlg. Quindi l’evasione da una linea guida incastonata nel sito ufficiale ministeriale comporterebbe, nella pratica, l’attribuzione al sanitario di un comportamento colposo. È evidente che si sta scegliendo uno strumento atto a far ben altro, come disciplinatore di un sistema decisionale giuridico, incastonandolo in un’ottica quasi “codicistica”. La contraddizione, almeno dal punto di vista culturale, è evidente e le conseguenti misinterpretazioni – è lecito domandarsi – che effetto avranno sul comportamento sanitario in genere e sui riverberi in ambito giudiziario?
Ovviamente – mi si potrà rispondere – bisogna tener conto che tuttavia la L. 24 fa riferimento “alle specificità del caso concreto” e che in mancanza delle raccomandazioni provenienti dalle linee guida “legislative”, si dovrà far riferimento alle “buone pratiche clinico-assistenziali”, cioè a quanto disposto dalle migliori evidenze scientifiche a disposizione, al di fuori quindi delle linee guida ufficiali. Forse non deve essere stato del tutto chiaro agli estensori del provvedimento legislativo, che “i casi concreti” di responsabilità professionale medica sono del tutto “specifici”; ovvero, ognuno fa a sé, innanzitutto per la modalità dell’approccio, sia dal punto di vista giuridico, sia dal punto di vista medico-legale. Proporre la standardizzazione di un processo, civile o penale che sia, è un’ovvia aberrazione per vittime, sospetti carnefici e Giustizia in generale. Se si volesse poi superare il mero ostacolo etico-culturale, mai bisogna dimenticarsi che la peculiarità dei casi di sospetta malpractice sta proprio, fortunatamente, nella loro assoluta “rarità” rispetto alla pratica comune. Due cifre per comprendere quello che sto dicendo: nel 2016 – recentissimi dati IVASS (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni) – le compagnie assicurative operanti in Italia, considerando sia le strutture ospedaliere sia i medici in proprio, hanno ricevuto 29000 denunce di sinistri. Bisogna sapere però che in Italia, nel 2016, ci sono stati 8 milioni e settecentomila ricoveri ospedalieri con complessivi 61 milioni di accessi alle strutture ospedaliere stesse (Rapporto sull’attività di ricovero ospedaliero Dati SDO 2016 dell’Istituto Superiore di Sanità). È evidente che il caso di sospetta “malpractice” presenta delle peculiarità che lo differenziano dalla norma. Anche il tentativo, da considerarsi corretto, di standardizzare una attività clinica nel miglior modo stabilito dalle evidenze scientifiche, esula da un compito di giudizio in merito all’operatività di professionisti sanitari in un caso, che è in genere, come si è detto, peculiare di per sé.
E nessuno fa cenno a quanto sia difficile e impegnativo redigere delle “linee guida” che abbiano davvero le caratteristiche previste dalla letteratura internazionale, visto poi che la Legge, purtroppo o come al solito, è “a costo 0” per la finanza pubblica (comma 4 dell’art. 5). È priva, quindi, per ragioni di bilancio, degli investimenti necessari per operare una rivoluzione culturale quale quella prevista dalla Gelli – Bianco per creare una situazione simile a quella del NICE britannico. Pensate che quest’ultimo è sorto 18 anni fa, e peraltro tra i propri statement ha anche una incisione importante sotto il profilo finanziario nel sistema sanitario nazionale inglese (ovvero facciamo le cose per bene ma spendiamo in modo, diciamo, accurato – ma attenzione in terra d’Albione non hanno l’art. 32 della Costituzione). Ha inoltre al proprio interno più di 1500 linee guida e ha ricevuto per l’annata 2016-2017 finanziamenti dal Governo per 50 milioni di Sterline (Nice Annual Report and Accounts) ovvero per ca. 57 milioni di euro. Noi incominciamo ora. Il sito del SNLG è ad oggi inattivo (nel senso che è “in lavorazione” da marzo), siamo a quota “0” per ciò che riguarda le linee guida e ricordiamo che le stesse vanno riviste ogni due anni e, infine, non abbiamo alcun fondo nuovo per operare. Insomma, ci apprestiamo a girare “un kolossal” con un cellulare. Sappiamo benissimo che le capacità nascoste degli italiani sono straordinarie ma la china, in questo caso, è davvero irta.
Franco Marozzi (Membro del Consiglio Direttivo SIMLA Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni – Segretario FAMLI Federazione delle Associazioni Medico Legali Italiane)