Abstract
In questa sentenza della Suprema Corte Penale IV Sezione (00392/22 Presidente Ciampi, Relatore Nardin) gli ermellini delineano chiaramente la responsabilità del capo equipe chirurgica che deve comunque sorvegliare l’attività di tutti i partecipanti all’intervento e che risponde, comunque, degli errori dei suoi “sottoposti”.
La commenta per noi l’Avv. Antonio Serpetti di Querciara ormai nostro abituale collaboratore.
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1.Introduzione. La sentenza riguarda il ricorso presentato alla Suprema Corte contro una sentenza emanata dalla Corte d’appello che, confermando la decisione assunta in primo grado, riteneva concorrente nel reato di cui all’art. 390 c.p. un medico con l’infermiere ferrista. Infatti, a seguito di un’operazione chirurgica eseguita dai due soggetti imputati, nel paziente si creava un grave ascesso causato da una garza laparotomica accidentalmente lasciata durante il precedente intervento. L’ascesso provocava una lesione la cui malattia era superiore a quaranta giorni. La Suprema Corte è, dunque, chiamata ad affrontare il tema della responsabilità medica e, più in particolare, quello della responsabilità d’equipe.
2. La decisione della Corte di Cassazione. Il ricorso presso la Corte di cassazione è promosso dal difensore del medico il quale non concorda con le conclusioni del giudice di secondo grado, sostenendo che, dato il lavoro d’equipe e i ruoli diversificati dei vari professionisti in sala operatoria, il medico, per il caso in oggetto, non dovesse incorrere in alcuna forma responsabilità. Il medico, infatti, durante l’operazione, prima di procedere alla conclusione dell’intervento, aveva chiesto – come prescritto dalle linee guida e dalla Raccomandazione del Ministero della Salute 2/2008 – al ferrista di procedere al riconteggio delle garze e, solo dopo essere stato rassicurato sul pareggio, aveva proceduto alle suture. La responsabilità, secondo il ricorrente, era, dunque, da porre esclusivamente a carico dell’infermiere che, probabilmente, aveva annotato, o contato, scorrettamente il numero di garze utilizzate. Sempre secondo questo ragionamento, sarebbe stata ravvisabile una responsabilità a carico del medico solo nel caso in cui il conteggio avesse dato un risultato diverso e questo non si fosse attivato con tutti i mezzi possibili per trovare la garza mancante. Un’interpretazione diversa comporterebbe la configurazione a carico del medico di una responsabilità oggettiva, riducendo, inoltre, lo spazio di autonomia riconosciuto alle altre professioni sanitarie.
Nel procedere all’esame del ricorso, la Corte di cassazione suddivide i motivi di impugnazione in due temi: la sussistenza della condotta colposa imputabile al medico e l’applicabilità dell’art. 3 legge Gelli Bianco.
Con riferimento alla prima questione, la Corte di cassazione preliminarmente richiama una serie di disposizioni normative che hanno reso nel tempo la figura dell’infermiere una professione autonoma, dotata di competenze specifiche e con conseguenti sfere di responsabilità. Dato atto di tale evoluzione, il rapporto tra medico e infermiere non è più di mera subordinazione, ma risulta “una collaborazione nell’ambito delle rispettive sfere di competenza, con conseguente assunzione di una specifica ed autonoma posizione di garanzia da parte dell’infermiere in ordine alla salvaguardia della salute del paziente, il cui limite è l’atto medico in sé”.
Su tale premessa la Corte Suprema procede, poi, al richiamo della Raccomandazione del Ministero della Salute 2/2008 relativa alla gestione del materiale chirurgico, quali garze o altri strumenti chirurgici in sala operatoria. Al suo interno trova disciplina anche il conteggio delle garze e gli specifici compiti attribuiti agli infermieri e ai medici. Responsabile diretto di tale operazione è l’infermiere, ma ciò non esclude un compito di supervisione da parte di tutti gli altri operatori presenti, non andando esenti da responsabilità per aver semplicemente assistito al conteggio delle garze. Secondo l’interpretazione offerta dalla Corte, il medico, data la posizione di garanzia specifica assunta con l’atto operatorio, ha il dovere di evitare il prodursi di un evento avverso causato dalla presenza di elementi estranei nel corpo del paziente. Ne consegue che l’onere di diligenza, nel caso di operazioni chirurgiche in cui siano impiegate garze o altra strumentazione, impone un continuo monitoraggio del campo operatorio da parte del medico sia nel corso dell’intervento che al termine dello stesso, non essendo sufficiente il riconteggio finale per escluderne la responsabilità.
Inoltre, l’operazione chirurgica coinvolge una serie di operatori con diverse specializzazioni ed impone un lavoro d’equipe con la conseguente necessità di individuare un soggetto che diriga e monitori il corretto svolgimento dell’attività. Tenuto conto che tale posizione è generalmente rivestita dal medico, la giurisprudenza tende a escludere che sia applicabile a quest’ultimo il principio di affidamento. Ciò non comporta, d’altra parte, che si configuri una responsabilità oggettiva a carico del sanitario, ma che tra i compiti del capo dell’equipe vi sia anche quello di controllare il campo operatorio al termine dell’intervento.
In conclusione, il capo dell’equipe non solo deve accertarsi che l’infermiere compia il conteggio prescritto – e annoti tutto nei documenti di sala operatoria -, ma deve anche operare un controllo personale del campo operatorio, non potendosi escludere, a priori, l’errore di calcolo o la rottura di una delle garze. Ove il medico non agisca in tale senso, viola una specifica norma cautelare e non è ravvisabile la culpa in vigilando.
Infine, rilevato nel caso di specie la violazione delle prescrizioni delle linee guide, la Suprema Corte, allineandosi con i due precedenti gradi di giudizio, ravvisa l’inapplicabilità dell’art. 3 della legge Gelli Bianco alla condotta del medico, dovendosi configurare un’ipotesi di colpa grave a suo carico.
3. Brevi riflessioni conclusive. La pronuncia in esame affronta il tema della responsabilità d’equipe e del ruolo del medico responsabile della sala operatoria. Le conclusioni raggiunte, inoltre, si pongono in linea di continuità con l’orientamento prevalente in giurisprudenza e in dottrina.
Alla base di tale orientamento è la definizione di attività medica d’equipe che “si fonda sulla cooperazione fra più sanitari che intervengono (…) all’interno di un unico percorso diagnostico o terapeutico, perseguendo l’obiettivo comune della salute e della salvaguardia del paziente che vi sia sottoposto: la condotta del singolo medico è, dunque, funzionalmente connessa a quella del resto dell’equipe, dal momento che, senza la necessaria interazione fra le competenze tecnico-scientifiche differenti proprie di ciascun componente, lo scopo unitario non potrebbe essere raggiunto”.
Pertanto, i sanitari si trovano a collaborare insieme con il fine comune del benessere del paziente. È, dunque, necessario comprendere, se sussista la responsabilità dei sanitari per l’errore commesso da un solo membro dell’equipe. I singoli sanitari devono, infatti, rispettare le regole cautelari imposte dalle loro specifiche professioni, ma, rilevato il comune onere di tutela della salute del paziente, ciascun sanitario ha il compito di sorvegliare l’operato dei colleghi. Tale dovere viene bilanciato dal cd. principio dell’affidamento attenuato in forza del quale si esclude la responsabilità di un membro dell’equipe per l’errore di un altro professionista, solamente qualora l’errore non fosse prevedibile secondo le comuni regole dell’attività medico chirurgica, o rilevabile secondo le comuni conoscenze scientifiche del professionista medio.
Da distinguersi è, invece, la posizione del capo d’equipe, il cui ruolo apicale impone un compito di direzione e sorveglianza dell’attività operatoria. Pertanto, quest’ultimo, diversamente dagli altri collaboratori, ha un dovere espresso di controllo e vigilanza che implica l’esclusione dell’applicabilità allo stesso del principio di affidamento. Avendo un ruolo di controllo, si deve escludere che possa fare affidamento sui colleghi, ma ciò non implica che per qualunque errore sia ritenuto responsabile, negando, dunque, la configurabilità della responsabilità oggettiva. Si esclude la responsabilità, dunque, nel caso in cui sia dimostrato un’efficiente articolazione del programma operatoria, una corretta attribuzione dei compiti ai vari partecipanti e un’adeguata sorveglianza durante tutta l’attività svolta.
Qui sotto potete leggere e scaricare la sentenza commentata.
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