Abstract
La Cassazione torna sul tema della quota di danno biologico realmente risarcibile nell’ambito di casi di responsabilità medica. Questa secondo una recente Sentenza della Sezione III Civile (la 27265/21 del 7 ottobre scorso, Presidente Travaglino, relatore Rubino) è rappresentata dall’invalidità del paziente al netto del valore della patologia originaria e dell’intervento subito. Affrontiamo il tema attraverso un commento che ci ha fatto pervenire l’Avv. Antonio Serpetti di Querciara.
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Nella sentenza n. 27265/2021, pubblicata in data 7 ottobre 2021, la Suprema Corte torna ad affrontare il tema del calcolo del risarcimento del danno alla salute subito, nel caso di specie, da una paziente affetta da una patologia oncologica preesistente, alla quale si assomma un’ulteriore pregiudizio a seguito di intervento chirurgico, connotato da colpa medica e per il quale non fu prestato il necessario consenso informato.
In particolare, dopo una lunghissima ed articolata vicenda processuale – che per ragioni di sintesi non merita conto interamente riepilogare – l’ASL convenuta era stata condannata al risarcimento del danno alla salute subito dalla donna che, in giovane età, era stata sottoposta ad intervento chirurgico alle ovaie nel corso del quale, a mezzo di esame istologico estemporaneo, veniva scoperta la presenza di un carcinoma alle ovaie. A quel punto, l’equipe operatoria, previo avviso verbale fornito solamente alla madre della paziente, senza interrompere la procedura e senza acquisire uno specifico e preventivo consenso dalla paziente, procedeva all’asportazione dell’intero apparato riproduttivo.
Fu, quindi, praticato un intervento diverso da quello programmato ed assentito, nonché maggiormente demolitivo, che determinava nella paziente conseguenze fisiche e psicologiche particolarmente severe. La Corte d’appello (in funzione del giudice del rinvio stante il precedente ricorso per cassazione) condannava l’ASL al risarcimento da mancata acquisizione del consenso informato e, in base alle risultanze della c.t.u. svolta (che aveva accertato l’opportunità di praticare un intervento meno radicale, stante la dimensione, non particolarmente estesa, della massa tumorale) liquidava alla paziente i danni per la lesione all’integrità psicofisica applicando la massima personalizzazione.
L’ASL, contestando i criteri seguiti dal giudice di merito per la quantificazione dei suddetti danni, ricorreva in cassazione.
La Corte di legittimità, sul punto, conferma il proprio orientamento, sostenendo la necessità di fare ricorso al calcolo del danno differenziale.
La Corte Suprema, infatti, contesta alla Corte d’appello di non aver operato la corretta distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica, avendo attribuito all’ASL, ricomprendendolo nella causalità giuridica, l’onere risarcitorio relativo al complessivo danno biologico esitato dalla paziente conseguentemente alla perdita integrale dell’apparato riproduttivo, senza aver considerato che, a cagione della patologia oncologica dalla quale la stessa era affetta, in ogni caso, avrebbe dovuto subire una menomazione alla propria integrità psicofisica, per caso fortuito e non in nesso di causalità giuridica con l’operato dei sanitari.
La Corte d’appello non ha considerato che all’ASL non sia addebitabile (sotto il profilo della causalità giuridica) l’intera gamma delle conseguenze fisiche e psichiche, senz’altro devastanti, riportate dalla paziente all’esito dell’intervento chirurgico subito presso la struttura pubblica, bensì solo le conseguenze riconducibili al suo ambito di responsabilità, cioè quelle determinate dall’esecuzione di un intervento demolitivo non necessario, sebbene eseguito non su un apparato genitale completo di una persona sana, ma su un corpo già inciso in maniera consistente dalla patologia oncologica.
Ne consegue che il danno biologico effettivamente risarcibile, in quanto connesso sul piano della causalità giuridica all’operato dei medici, non poteva essere rappresentato dall’intera menomazione sofferta dalla paziente, ma si sarebbe dovuto calcolare mediante applicazione del criterio del danno differenziale, ponendo, in tal modo, a carico dell’Azienda sanitaria solamente le conseguenze dannose delle quali poteva essere ritenuta responsabile.
Il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte prevede che il danneggiante dovrà essere chiamato a rispondere “di tutto il danno provocato e soltanto di esso, ovvero, in presenza di concause, delle sole conseguenze dannose a lui ascrivibili sotto il profilo della causalità giuridica” (cfr. anche Cass n. 514/2020).
La Suprema Corte, peraltro, indica anche il metodo per calcolare l’ammontare del danno da risarcire, laddove ad una patologia, o a una menomazione, preesistente se ne assommi una ulteriore determinata dall’illecito che, con essa, concorre.
Vengono richiamati, sul punto, i principi statuiti per la liquidazione del danno differenziale, secondo i quali in tema di liquidazione del danno alla salute, l’apprezzamento delle menomazioni preesistenti concorrenti in capo al danneggiato rispetto al maggior danno causato dall’illecito va compiuto stimando prima in punti percentuali l’invalidità complessiva – risultante cioè dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall’illecito -, poi stimando quella preesistente all’illecito, convertendo entrambe le percentuali in una somma di denaro e procedendo, infine, a sottrarre dal valore monetario dell’invalidità complessivamente accertata, quello corrispondente al grado di invalidità preesistente.
Il sanitario e/o l’ente ospedaliero danneggianti saranno, in tal modo, responsabili unicamente nella misura dell’importo differenziale tra questi due valori, avendo gli stessi determinato solo quel particolare segmento di danno e, solo in relazione a tale porzione, così individuata, il giudice potrà legittimamente esercitare il suo potere-dovere di personalizzare il danno in relazione alle circostanze del caso concreto, prendendo a base di calcolo il parametro costituito dalla differenza tra ai due valori (cfr. anche Cass n. 28896/2019).
Nel caso di specie invece – asseriscono i Massimi Giudici – la Corte d’appello, abbagliata dall’obiettiva drammaticità della situazione in cui è precipitata in giovane età la signora, ha effettuato una quantificazione del danno rapportata all’invalidità complessiva successiva all’intervento chirurgico senza minimamente considerare che, dall’importo in tal modo determinato, doveva essere sottratto il valore monetario corrispondente alla patologia originaria ed alle conseguenze necessitate dall’intervento chirurgico volto alla sua rimozione, a detrimento delle possibilità riproduttive della paziente, ma a salvaguardia delle sue aspettative di vita, in modo tale da determinare il differenziale risarcitorio da personalizzare, spettante alla danneggiata.
In conclusione, il principio affermato è che il giudice, nei suddetti casi, deve sottrarre dall’invalidità complessiva successiva all’intervento il valore monetario corrispondente alla patologia originaria, così da poter correttamente determinare il differenziale risarcitorio da personalizzare, in considerazione che di questo segmento di danno è responsabile il sanitario.
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