Il lungo percorso che ha fissato i principi e le regole “del gioco” nell’ambito dei giudizi di responsabilità medica nei procedimenti civili si è ormai cristallizzato e, salvo un ulteriore intervento del Legislatore, la severità nel rispettali, onde evitare un eccessivo e ridondante “ingolfo” della macchina della giustizia, non è solo applicata alla parte debitoria di un contratto, ma anche a quella creditoria che, detto in altri termini, è la parte di chi il danno lo richiede, ossia il paziente.
La dura legge della soccombenza
A questa conclusione si giunge leggendo l’ordinanza della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione n. 12633 dell’8/05/2024 che, dopo l’analisi del caso specifico, giunge a condannare i ricorrenti in solido tra loro.
Infatti: “Avendo la Corte definito il giudizio in conformità alla proposta ex art. 380-bis c.p.c., trovano applicazione le previsioni di cui all’art. 96, terzo e quarto comma, c.p.c., sulla condanna della parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata e, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad Euro 500 e non superiore ad Euro 5.000.
L’art. 380-bis, comma terzo, c.p.c. (come novellato dal D.Lgs. n. 149 del 2022) – che, nei casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta, contiene una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell’art. 96 c.p.c. – codifica, infatti, un’ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi ad una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione definitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente (Cass., S.U., n. 27195/2023; Cass., S.U., n. 28540/2023). I ricorrenti, dunque, vanno, altresì, condannati al pagamento della somma, equitativamente determinata, di Euro 500,00 in favore della controparte e di una ulteriore somma di Euro 500,00 in favore della Cassa delle Ammende.”.
Il fatto
Il caso riguarda la mancata e tardiva diagnosi e somministrazione di una terapia per il controllo di una malattia genetica che gli esercenti la responsabilità genitoriale del minore ritenevano censurabile in sede civile e produttiva di un danno stimabile nella misura del 100%.
Sia in primo che in secondo grado la richiesta risarcitoria fu rigettata.
La Corte di appello, come si legge nella ordinanza della Cassazione, riconoscendo il caso di straordinaria difficoltà ed escludendo ogni negligenza nel comportamento dei sanitari, non rinveniva la prova del nesso causale tra il contestato ritardo con cui fu iniziata la terapia e l’aggravamento delle condizioni di salute della paziente. Il caso si caratterizzava anche per l’addebito riguardante la lamentata lacuna della cartella clinica, che però la Corte territoriale riteneva di nessun aiuto a stabilire le conseguenze di un anticipato trattamento della patologia, posto che la rarità del difetto genetico (desunto dalla CTU) non consentiva allo stato delle conoscenze mediche di stabilire quale efficacia avrebbe avuto una precoce terapia, anche in relazione alla quantificazione della possibile perdita di chances. Inoltre in letteratura non erano noti casi di “bambini trattati in fase presintomatica”.
Avverso la sentenza di appello, era quindi mosso ricorso in Cassazione articolato in quattro motivi. Fu proposta dal consigliere delegato della Terza Sezione civile la definizione accelerata del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis cpc (Procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati).
Le decisioni della Suprema Corte
Ora, tale articolo è stato sollevato in ragione alla inammissibilità e della infondatezza dell’impugnazione per Cassazione e recita: “Se non è stata ancora fissata la data della decisione, il presidente della sezione o un consigliere da questo delegato può formulare una sintetica proposta di definizione del giudizio, quando ravvisa la inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto. La proposta è comunicata ai difensori delle parti. Entro quaranta giorni dalla comunicazione la parte ricorrente, con istanza sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale, può chiedere la decisione. In mancanza, il ricorso si intende rinunciato e la Corte provvede ai sensi dell’articolo 391. Se entro il termine indicato al secondo comma la parte chiede la decisione, la Corte procede ai sensi dell’articolo 380 bis e quando definisce il giudizio in conformità alla proposta applica il terzo e il quarto comma dell’articolo 96.”.
Non solo le spese ma anche l’ammenda
Nell’ordinanza, come si può leggere, gli Ermellini rigettato tutti i motivi e specificano in modo molto sintetico:
- Nei giudizi di risarcimento da responsabilità medica è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso di causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che nono” causa del danno, sicchè, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata;
- L’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno;
- in tema di lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria, la domanda risarcitoria del danno per la perdita di chance è, per l’oggetto, ontologicamente diversa dalla pretesa di risarcimento del pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato, il quale si sostanzia nell’impossibilità di realizzarlo, caratterizzata da incertezza (non causale, ma) eventistica; sicché, è da ritenersi nuova e, dunque, inammissibile la domanda risarcitoria per perdita di chance avanzata per la prima volta in appello;
Nel caso specifico risulta che la Corte di appello fece buon governo di tali principi e che, quindi, il ricorso in cassazione era infondato ed inammissibile.
L’articolo 96 CPC
Probabilmente, le regole del gioco sono ad oggi ritenute così cristallizzate e note che il ricorso è stato sanzionato a danno del ricorrente, recitando l’art.96 cpc:
Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave , il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.
Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.
In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.
Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000
Il monito per ovvie ragioni procedurali è rivolto alla parte ricorrente, ma ricade inevitabilmente sia su chi rappresenta legalmente la parte che sui consulenti tecnici di parte, due figure professionali a cui è richiesta la conoscenza delle regole del gioco.
Qui sotto potete leggere e scaricare l’intera ordinanza della Cassazione