Abstract
La Prof.ssa Rossana Cecchi dell’Università di Modena e Reggio Emilia e dei Dott.i Francesco Calabrò e Alice Buzzelli dell’Università di Parma, ci parlano di uno studio sul femminicidio che sta coinvolgendo numerosi istituti di medicina-legale universitari italiani.
Il caso di Giulia Cecchettin è, solo nel 2023, il 105° caso di omicidio di donna in Italia. Sebbene i media comunemente etichettino tali eventi come femminicidi, un’analisi dei siti ufficiali delle Nazioni Unite, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del Consiglio d’Europa rivela l’assenza di una definizione chiara di tale fenomeno, considerato, genericamente, come la forma estrema di violenza contro le donne. Le legislazioni interne ai vari paesi, a loro volta, spesso mancano di un focus specifico su questo evento criminoso, concentrandosi prevalentemente su normative inerenti la violenza sulle donne.
Femminicidi: l’inquadramento giuridico nel mondo
È interessante notare che soltanto il Sud America 1,2,3, forse perché afflitto da questa piaga in modo più eclatante, ha iniziato ad etichettare l’uccisione di donne, quando perpetrata dal partner, specificatamente come femminicidio, introducendo così una fattispecie di reato ad hoc. Legare il femminicidio alla relazione affettiva intima, tuttavia, appare evidentemente un’interpretazione riduttiva.
Rimanendo a livello internazionale, è degno di nota anche il fatto che, tra i paesi che ancora tollerano i delitti d’onore, il Pakistan 4 sia l’unico ad aver promulgato, negli anni duemila, specifiche leggi che mirino a prevenirlo.
Ad ogni modo, l’assenza di normative specifiche sul femminicidio è molto probabilmente connessa alla mancanza di una chiara definizione del termine, come riconosciuto sia dall’OMS nel 2002 5 che, in tempi più recenti, dalla stessa Unione Europea nel 2018 6. La mancanza di una precisa definizione sarebbe quindi, in parte, causa dell’assenza di una legislazione specifica in merito, oltre che di azioni mirate in modo specifico a prevenirlo.
Femminicidi in Italia: uno studio in corso
La medicina legale, con particolare riferimento alla patologia forense, si sente fortemente chiamata a intervenire da un punto di vista scientifico e culturale, poiché direttamente coinvolta nell’esame autoptico delle donne vittime di femminicidio. A livello internazionale, patologi forensi provenienti dagli Stati Uniti, Canada, Brasile, Taiwan, Giordania, Turchia, Egitto, Sud-Africa e Portogallo si sono interessati al tema, pubblicando informazioni circa la natura delle lesioni, la causa di morte e la dinamica delle relazioni vittima-carnefice 7. In Italia, casistiche relative agli istituti di medicina legale di Bologna, Milano, Udine, Torino e Parma 7,8,9,10,11 sono state oggetto di studio e pubblicazione. L’analisi complessiva di tutti questi studi, nazionali e internazionali, conferma la disomogeneità nel concetto di femminicidio e, di conseguenza, dei dati attenzionati. Questa mancanza di uniformità impedisce una sistematizzazione accurata del fenomeno, con la conseguente impossibilità nell’identificare fattori di rischio concreti associati al femminicidio.
Ecco che la medicina legale italiana ha voluto intraprendere un’azione congiunta di studio della casistica nazionale, pervenuta all’osservazione dei singoli settorati medico-legali, adottando parametri condivisi che si concentrano su diversi aspetti, come l’analisi del movente, della relazione vittima-carnefice, delle zone anatomiche colpite, del numero di lesioni, dei mezzi lesivi utilizzati, del meccanismo lesivo e del luogo in cui l’omicidio si è verificato. Tutti gli omicidi di donna oggetto di analisi sono stati esaminati seguendo la definizione medico-legale di femminicidio proposta dalla medicina legale italiana alla comunità internazionale 12: il femminicidio si realizza quando l’omicida uccide la propria vittima in quanto non le riconosce il diritto all’autodeterminazione.
Da un punto di vista medico-legale è stato, quindi, considerato femminicidio l’uccisione di una donna che abbia manifestato volontà di separarsi dal partner, rifiutato relazioni affettivo-sessuali o matrimoni combinati, rivendicato il proprio diritto a lavorare, a studiare, a vestirsi in un determinato modo, in altri termini ad esprimere la propria personalità in piena libertà. Ecco che al gruppo dei femminicidi non sono sfuggiti i casi in cui l’omicida sia un padre, un parente, un cliente, un conoscente; rischio che si corre quando si prendono in considerazione solo i rapporti intimi tra vittima e carnefice.
Al contrario, non saranno considerati femminicidi i casi di omicidi di donne derivanti da violenza motivata da ragioni che esulano dalla definizione appena riportata, come ad esempio motivi economici, disturbi psichiatrici dell’aggressore, malattia della vittima o la presenza di una personalità violenta nell’autore. In questi casi, infatti, le vittime saranno tutte coloro che vivono, che sono o sono state per qualche motivo in relazione con questi soggetti, ricomprendendo così anche le minori, le anziane o donne che siano entrate nel raggio di azione di queste violenze anche per futili motivi.
Gli Istituti di Medicina Legale italiani, attraverso l’impegno delle rispettive Scuole di Specializzazione in Medicina Legale, hanno messo a disposizione le proprie casistiche in un lavoro di squadra mirato a fornire una risposta scientificamente fondata al fenomeno del femminicidio, basandosi su una metodologia condivisa. Attualmente, oltre 1100 casi sono oggetto di valutazione statistica, finalizzata a garantire risultati scientificamente affidabili.
Dall’analisi preliminare dei dati emergono elementi degni di nota. Nei femminicidi, al contrario degli omicidi generici di donne, si osserva un’aggressività mirata prevalentemente al volto, come se si volesse cancellare l’identità della vittima, alla bocca e al cavo orale, come se si intendesse privarla della parola, al collo, a simboleggiare la supremazia del carnefice sulla fragilità della vittima, e alla regione mammaria e al pube. Il pube, normalmente risparmiato negli omicidi generici di donna, è un chiaro bersaglio simbolico di un’aggressione alla sessualità della vittima. Si evidenzia inoltre il fenomeno dell’overkilling, in cui i colpi inflitti superano numericamente quelli sufficienti a procurare la morte. Tutti questi elementi delineano un quadro di intensa carnalità nell’atto omicida, che ben si concilia con il senso di potere che il carnefice si arroga.
Ecco, dunque, che la patologia forense, sostenuta in questo percorso dalla Società scientifica di riferimento – SIMLA – intende dare il proprio contributo di conoscenza dei gesti violenti a maggior rischio di viraggio in gesti omicidiari. L’importante ricerca in corso è uno sforzo congiunto che mira a fornire ai centri antiviolenza dati utilizzabili come segnali di allarme per le potenziali vittime. Parallelamente, questa indagine potrà fornire al legislatore ulteriori elementi per orientare la formulazione delle normative. Riguardo al fenomeno del femminicidio, riteniamo che un quadro legislativo ad hoc sia necessario non tanto per distinguere omicidi di classe A e B, ma piuttosto per stigmatizzare il movente che si cela dietro l’atto omicida, un atto che minaccia il diritto fondamentale alla libertà sancito dall’art. 13 della nostra Costituzione.
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