Abstract
Una sentenza della Cassazione Penale su un caso di autodimissioni seguite da decesso del paziente ci fa riflettere sull’incidenza penalmente rilevante della mancata informazione al malato che però, nel caso esaminato nella decisione degli ermellini, è connessa ad elementi di colpa professionale. Ce ne parlano il nostro Santovito Davide e il Dott. Giuseppe Villani (Specialista in formazione dell’Università di Torino).
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Con la sentenza numero 2850/2023, la quarta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso mosso da due medici di un Pronto Soccorso nei confronti della sentenza di condanna emessa dalla Corte di Appello.
La sentenza offre una breve sintesi sul significato del principio dell’affidamento, ma affronta anche la tematica dell’informazione al paziente che chiede le dimissioni contro il parere dei sanitari.
Altrove – ad esempio basta leggere questo articolo “La colpa per omessa informazione al paziente che si autodimette” – la sentenza è stata oggetto di riflessione proprio in merito alla valenza del consenso informato e quanto la omessa informazione abbia influito sulla ratio della condanna penale dei due medici, in un caso in cui fu il paziente ad “autodimettersi”. In apparenza una bizzarria, ma ad una lettura medico-legale della sentenza ben si comprende come la motivazione della condanna non sia proprio insita nell’informativa, ma in una omessa diagnosi.
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Il fatto
Nella notte fra il 6-7 Luglio 2008 (circa nove anni prima della legge 219/2017) un uomo di 53 anni si recava con la moglie al Pronto Soccorso per dolore toracico con senso di indolenzimento al braccio sinistro; al triage gli era assegnato un codice rosso ed il medico in turno eseguiva l’ECG ed il pannello di esami ematochimici previsti, fra cui il dosaggio delle troponine (negativo al primo prelievo) e della CK MB (aumentati rispetto al range fisiologico).
Il tracciato elettrocardiografico non era refertato dal medico di Pronto Soccorso, né inviato in cardiologia. Il paziente, dunque, richiedeva di essere dimesso e firmava un modulo standard di dimissioni autonome, benché i sanitari, nel corso del processo, avessero riferito aver fatto presente la necessità di eseguire ulteriori accertamenti diagnostici. Fatto questo confermato anche da un infermiere allora in servizio. Al paziente fu quindi consegnato il verbale di pronto soccorso con diagnosi alla dimissione di “toracoalgia”, con la raccomandazione di assumere ibuprofene per il dolore a domicilio.
La sera successiva, a seguito di un malore dopo una giornata di lavoro, il paziente si accasciava ed il servizio di 118 giunto al domicilio constatava l’exitus del paziente.
Nel corso del procedimento penale fu eseguita l’autopsia e la perizia. Entrambe concludevano che la causa di morte era un evento ischemico cardiaco, i cui segni erano già presenti all’ECG eseguito in pronto soccorso, ma mai refertato.
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Le motivazioni della sentenza di condanna
Gli Ermellini, rifacendosi a quanto riportato nella sentenza della Corte d’Appello, scrivono: “I giudici hanno, inoltre, ritenuto provato che OMISSIS, nell’atto di allontanarsi, non fosse stato adeguatamente informato sulle possibili cause del malessere accusato: la tesi per cui i due medici avrebbero fatto di tutto per trattenerlo era smentita dall’assenza di tracce documentali in tal senso (in atti era presente un foglio standard di dimissioni volontarie, uguale a quello siglato dai pazienti non ricoverati o trattenuti quella notte) e dalla massima di esperienza per cui chi si reca al Pronto Soccorso in piena notte per dolore irradiante al torace difficilmente si allontana, addirittura contro il parere dei medici, senza aver ricevuto una diagnosi tranquillizzante”.
La Corte di Cassazione penale ribadisce la necessità di documentare quanto possibile, financo i dettagli del colloquio con il paziente, al fine di poter ricostruire gli eventi occorsi con maggiore aderenza al vero. Così facendo, la Suprema Corte ha aderito alla ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di Appello, che non ha considerato valide le argomentazioni a difesa degli imputati e la testimonianza dell’infermiere. Inoltre, era ritenuto del tutto condivisibile il fatto che i giudici territoriali avevano ritenuto provato che il paziente, all’atto di allontanarsi, non fosse stato adeguatamente informato sulle possibili cause del malessere accusato.
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Mancata informazione o colpa professionale
L’informativa, però, è non alla base della sentenza, ma la conseguenza di altro insito nella prestazione sanitaria.
Infatti, una più attenta lettura mette in luce che il vulnus della prestazione dei sanitari non è da individuare in un “inidonea informazione”, ma in una “omessa diagnosi”. Difatti, il paziente si era presentato in pronto soccorso con dolore toracico irradiato all’arto superiori di sinistra, l’ECG non era stato refertato (i periti avevano però individuato uno slivellamento del tratto ST maggiore di 2 mm da V3 a V6) e la curva delle troponine non si era conclusa, pur in presenza di valori di CK-MB superiori alla norma. Vi erano quindi, nel caso specifico ed in linea già con le linee guida di riferimento cardiologico, tutti gli elementi per porre la diagnosi puntuale di infarto del miocardio e non di mera diagnosi descrittiva dei sintomi, quale la toracoalgia.
La condanna, anche in sede di legittimità, deriva quindi da una omessa diagnosi, da cui deriva in seconda istanza una omessa informazione, non certo in primis da un vizio informativo o carente informazione come vorrebbe la (successiva rispetto ai fatti) legge 219/2017.
In altre parole, la condotta censurabile che ha comportato la condanna risiede in una omessa diagnosi e non tanto da una carente informazione riguardante le “possibili cause del malessere accusato”, per il quale la causa era nota: l’infarto miocardico acuto.
Pertanto, tale omessa diagnosi ha influenzato le scelte del paziente non tanto per non aver a lui prospettato tutte le possibili cause del suo disturbo, che dovevano ancora essere indagate, quanto per non avergli riferito, per errore di diagnosi, di essere affetto da un infarto miocardico acuto unica causa del suo malessere, in grado di minacciare il bene vita.
Si deve quindi evitare di ritenere (e far risuonare) che le “autodimissioni”, richieste e messe in atto dal paziente, non sollevino da responsabilità il medico. Se queste rimangono informate, anche nel dubbio di una certa o più probabile diagnosi per un volontario ed intempestivo allontanamento del paziente, i loro effetti negativi cadono a danno del paziente stesso, sempre che a monte non vi sia un errore di diagnosi sulla base degli accertamenti clinico-strumentali già disponibili.
Quindi leggere con attenzione. La prudenza è anche questa, altrimenti… what if.
Qui potete leggere e scaricare la sentenza in forma completa
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Leggi anche: Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento L 22/12/2017 n. 219