Abstract
La Corte di Cassazione Civile si esprime ancora con forza, in un caso definibile anche come “limite”, sulla relazione contrattuale tra struttura sanitaria e paziente con tutte le sue conseguenze sulla ripartizione dell’onere probatorio. Commenta per noi questa sentenza l’Avv. Antonio Serpetti di Querciara.
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Nella sentenza in esame, (Cass. civ. sez. III sent. 10050/2022, Presidente Travaglino, Relatore Scarano) la Suprema corte è chiamata a pronunciarsi su un caso di responsabilità medica. In particolare, il fatto riguardava il provocato aborto ad una gestante a seguito dell’esecuzione errata di un’amniocentesi. Su dichiarazione della paziente – suffragata dalla testimonianza della madre – l’esame sarebbe stato eseguito scorrettamente, essendo stato inserito ripetutamente l’ago, in violazione della buona pratica medica. Veniva, quindi, instaurato un procedimento per accertare la responsabilità del medico e ottenere il risarcimento del danno.
La sentenza di primo grado accoglieva la domanda, ma, a seguito dell’impugnazione presso la Corte d’appello, il giudice di seconde cure riformava la sentenza. In particolare, riteneva non dimostrata la condotta imprudente e imperita del medico, fondandosi su dichiarazioni testimoniali non affidabili e su una perizia medico legale che espressamente richiedeva il necessario accertamento del caso concreto, accertamento reso impossibile dall’inaffidabilità delle dichiarazioni testimoniali. Pertanto, essendo mancata da parte della donna la piena prova del fatto, il medico veniva ritenuto esente da responsabilità.
Tra i vari motivi di ricorso promossi per cassazione dalla difesa della paziente, la corte di legittimità ritiene ammissibile e fondato solo il quinto motivo. Oggetto di quest’ultimo è la denuncia dell’inosservanza delle regole di ripartizione dell’onere probatorio per lo specifico procedimento in esame. La Suprema corte ritiene l’impugnazione ammissibile per la denunciata violazione della prescrizione di cui all’art. 2697 c.c., in quanto sussiste un vero e proprio errore sul riparto dell’onere probatorio e non semplicemente un’errata valutazione dei mezzi di prova; giudizio, quest’ultimo, di merito ed insindacabile in sede di legittimità.
In particolare, la ricorrente, sulla premessa della natura (allora) contrattuale sia della responsabilità del medico sia di quella della struttura sanitaria, sottolineava che gravava su questi – in quanto debitori – la dimostrazione di aver fatto tutto il possibile per adempiere alla prestazione pattuita. Tale evidenza, tuttavia, a parere dei difensori della paziente, confliggeva con la pronuncia della Corte d’Appello, la quale aveva riformato la sentenza sul presupposto che la paziente – creditrice non avesse dimostrato, con prove sufficienti, la responsabilità.
La Suprema corte, nel pronunciarsi, parte dal richiamare la natura della responsabilità del sanitario, affermando che questa abbia natura contrattuale (art. 1218 c.c.), in quanto derivante da un contatto sociale qualificato. Pertanto, i criteri probatori non sono quelli della responsabilità aquiliana, bensì quelli tipici della responsabilità contrattuale. Afferma, dunque, che:
“il creditore che abbia provato la fonte del suo credito ed abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto, non è altresì onerato di dimostrare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore, spettando a quest’ultimo la prova dell’esatto adempimento”.
Proseguendo nell’esame della questione, la Corte di cassazione richiama un orientamento giurisprudenziale per cui, in caso di responsabilità professionale, sia onere del creditore dimostrare non solo la fonte dell’obbligazione, ma anche il nesso di causa tra il danno sofferto e la condotta del medico con un grado prossimo al “più probabile che non”. Permane a carico del debitore, invece, dimostrare che l’inadempimento sia stato dovuto a cause imprevedibili o inevitabili nonostante l’ordinaria diligenza. La Corte specifica, inoltre, che il concetto di imprevedibilità vada inteso come “non imputabilità”, in quanto:
“la non prevedibilità dell’evento (che si traduce nell’assenza di negligenza, imprudenza e imperizia nella condotta dell’agente) è giudizio che attiene alla sfera dell’elemento soggettivo dell’illecito, in funzione della sua esclusione, e che prescinde dalla configurabilità, sul piano oggettivo, di una relazione causale tra condotta ed evento dannoso”.
Viene, inoltre, specificato che, in caso di responsabilità professionale – e dunque anche medica – sia possibile identificare sia un evento di danno quale lesione dell’interesse finale del creditore, sia un danno a seguito della lesione dell’interesse strumentale, ex art 1174 c.c., ovvero l’interesse all’esecuzione della prestazione richiesta secondo le leges artis. In virtù di tale distinzione, il creditore è chiamato a dimostrare il legame causale tra la condotta del professionista e il danno subito, mentre il debitore resta gravato dalla prova dell’esistenza di un evento imprevedibile e inevitabile.
Pertanto, in linea di continuità con i principi enunciati, la Suprema Corte afferma che, qualora l’intervento sia “svolto in spregio alle leges artis, l’attore è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta del medico e l’evento dannoso, consistente nella lesione della salute e nelle altre lesioni ad essa connesse (nella specie, la perdita del concepito); è, invece, onere dei convenuti, ove il predetto nesso di causalità materiale sia stato dimostrato, provare o di avere eseguito la prestazione con la diligenza, la prudenza e la perizia richieste nel caso concreto, o che l’inadempimento (ovvero l’adempimento inesatto) è dipeso dall’impossibilità di eseguirla esattamente per causa ad essi non imputabile”.
A conclusione di tale ragionamento, la Suprema corte annulla la sentenza impugnata e rinvia al giudice competente perché si pronunci, tenendo conto dei principi emersi nella trattazione.
Le conclusioni a cui giunge la Corte di cassazione nella decisione in commento risultano parzialmente difformi – in riferimento alla responsabilità del medico, ma non a quella della struttura sanitaria – rispetto all’orientamento oggi maggioritario, sorto a seguito dell’introduzione della Legge cd. Gelli Bianco, che ha stabilito, salvo casi particolari, la natura extracontrattuale della responsabilità del sanitario, pur conservando la natura contrattuale della responsabilità dell’ente ospedaliero.
Inoltre, la decisione in esame riafferma l’irretroattività della Legge cd. Gelli Bianco e conferma il corretto riparto dell’onere probatorio da applicarsi ai casi precedenti al 2017, come quello in oggetto.
In tali casi, dunque, la Suprema Corte, statuisce la necessità di applicare le regole di cui all’art. 1218 c.c., escludendo l’inversione dell’onere probatorio, in quanto elemento tipizzante della responsabilità extracontrattuale. Le conclusioni a cui giunge la Corte risultano, inoltre, in linea con quanto affermato su casi simili dalla Suprema corte ove aveva già affermato che:
“al giudizio di responsabilità contrattuale in ambito medico sanitario, la sentenza gravata dimostra di avere adeguatamente applicato il principio di diritto, di recente confermato da questa Corte in materia di responsabilità sanitaria, secondo il quale mentre è onere del creditore della prestazione sanitaria provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento o l’insorgenza della situazione patologica e la condotta del sanitario, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio è, invece, onere della parte debitrice (il sanitario e la struttura in cui egli opera) provare la causa imprevedibile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione” (Cass. civ., sez. III, ord. 4424/2021).
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