Giurisprudenza Medicina Legale Civilistica

Cassazione: bocciatura di Milano anche sulla “premorienza”

Abstract

La Cassazione interviene ancora sulle Tabelle di Milano. Questa volta nel mirino della Suprema Corte ci sono le disposizioni dell’Osservatorio meneghino sulla liquidazione del danno a persona in tema di “premorienza” cioè relativamente danno alla salute sofferto da persona che venga a mancare, per cause non dipendenti dal fatto illecito, prima che il suo credito risarcitorio sia stato soddisfatto. Secondo la Cassazione Civile, le tabelle di Milano, in merito non sarebbero conformi “al criterio fondamentale dell’equità”.

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Nuova pronuncia negativa della Cassazione Civile sui disposti dell’Osservatorio per la Giustizia Civile del Tribunale di Milano.

Questa volta, la tabella milanese rigettata è quella relativa al danno a persona in tema di “premorienza” cioè a quel danno alla salute sofferto da persona che venga a mancare, per cause non dipendenti dal fatto illecito, prima che il suo credito risarcitorio sia stato soddisfatto.

Con l’Ordinanza 41933 del 29.12.2021 la Terza Sezione della Cassazione Civile (Presidente Sestini, Relatore Cirillo) prende una posizione netta rispetto a quanto aveva stabilito l’Osservatorio milanese che aveva affrontato, a partire dal 2018, la tematica della “premorienza” (vedi documento scaricabile a pag. 61).

Il caso in trattazione si riferiva ad un soggetto deceduto dopo aver subito gravi lesioni (valutazione del danno biologico nella misura del 62%) a seguito di un investimento da parte di un motociclo che si dava poi alla fuga – intervento, quindi, del Fondo di Garanzia – con danni liquidati in circa 620mila Euro da parte del Tribunale di Primo Grado. Nel corso di questo giudizio il soggetto decedeva. Veniva proposto Appello e la Corte incaricata, essendo stata valutato dal punto di vista medico-legale, l’insussistenza di nesso causale tra il sinistro della strada ed il decesso, riliquidava il danno riducendolo in modo consistente applicando il criterio proposto per il “danno da premorienza” dall’Osservatorio di Milano (ca. 94mila Euro con cifra finale complessiva di 150mila Euro stante l’adozione di una percentuale di personalizzazione ai livelli massimi ovvero pari al 50%).

La Cassazione, però, pur ribadendo gli assunti della nota sentenza “Amatucci” (7 giugno 2011, n. 12408), ricordando anche però le sue precedenti pronunzie sull’inapplicabilità delle tabelle di Milano in relazione alla liquidazione del danno parentale (sentenza 21 aprile 2021, n. 10579, e l’ordinanza 29 settembre 2021, n. 26300), riteneva il metodo del tribunale lombardo non conforme ad un criterio di equità.

La critica principale mossa dagli ermellini è che la tabella in discussione muove dall’assunto per cui “il danno non è una funzione costante nel tempo, ma esso è ragionevolmente maggiore in prossimità dell’evento per poi decrescere progressivamente fino a stabilizzarsi“. Tale assunto viene definito dalla Cassazione come non condivisibile in quanto “in contrasto con la logica, il diritto e la medicina legale“.

Le deduzioni della Suprema Corte, sul punto, sono estremamente chiare:

“…Non ha senso ipotizzare che un danno possa “decrescere” nello stesso momento in cui lo si definisce, appunto, “permanente”. Il danno biologico è definito dalla legge come permanente sul presupposto che esso scaturisca da una lesione i cui postumi, una volta stabilizzatisi, non siano più suscettibili di variazioni nel tempo (v. in tal senso le sentenze 7 marzo 2003, n. 3414, e 19 dicembre 2014, n. 26897, nelle quali si è detto che il danno biologico da invalidità permanente è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l’individuo non abbia riacquistato la sua completa validità, con relativa stabilizzazione dei postumi).
Sul piano giuridico, l’idea che il danno permanente alla salute possa diminuire nel tempo non appare corretta. Tale pregiudizio consiste infatti in una forzata rinuncia ad una o più attività quotidiane (così, tra le altre, la nota ordinanza 27 marzo 2018, n. 7513); il danno biologico permanente è, dunque, una rinuncia permanente.
Rispetto ad essa, il decorso del tempo può, in teoria, attutire la sofferenza causata da quella rinuncia, ma non consente comunque di recuperare le abilità perdute.
Sul piano della medicina legale, infine, la suindicata affermazione è scorretta, proprio perchè “permanenti” sono definiti in medicina legale quei postumi che residuano alla cessazione dello stato di malattia e sono perciò caratterizzati da una condizione di stabilità nel tempo.
La seconda premessa dalla quale prende avvio la tabella milanese qui in esame, dunque, finisce con l’applicare al danno biologico, che è lesione permanente e irreversibile del diritto alla salute, un presupposto non dimostrato, e cioè che quel danno si riduca col passare del tempo. Un simile criterio è accettabile in relazione al danno morale inteso come sofferenza giuridicamente rilevante, perchè appartiene alla natura dell’essere umano la capacità di adattarsi (entro certo limiti) anche alle più gravi perdite; per cui si può dire che il dolore diminuisce a mano a mano che l’evento dannoso si allontana nel tempo. Il danno biologico, invece, è per sua natura destinato a permanere e si calcola, col sistema del punto, proprio come invalidità permanente.
Le criticità sopra evidenziate conducono a risultati iniqui sul piano della liquidazione, come può vedersi facendo un confronto tra il sistema di liquidazione del danno biologico da invalidità permanente che le tabelle milanesi seguono per il caso di sopravvivenza della vittima fino alla conclusione del giudizio, con quelle del danno da premorienza.
Le prime, com’è ovvio, sono regolate secondo un criterio statistico, nel senso che la liquidazione avviene in base al punto di invalidità e all’età della vittima, che rileva perchè indica, secondo le aspettative di durata media della vita, per quanti anni la vittima dovrà convivere con la sua menomazione. Una volta che il giudizio termina col passaggio in giudicato della sentenza, la liquidazione diventa definitiva, senza che assuma più alcun rilievo il momento in cui la vittima effettivamente viene a mancare (proprio perchè il calcolo si fonda su di un’aspettativa di vita).
La tabella sul danno da premorienza, come si è visto, prende le mosse dal fatto che la vittima è morta prima che il giudizio finisse, per cui il calcolo del danno biologico va compiuto sulla base di un dato ormai certo e non più ipotetico. Tuttavia – e questo è il punto centrale che il Collegio intende mettere in evidenza – una tabella sul danno da premorienza, per poter essere “equa” nel senso che si è detto, deve partire dal presupposto che a parità di durata della vita residua deve corrispondere, ovviamente in caso di uguale invalidità permanente, un risarcimento uguale.
Detto in termini più semplici, il danno già sopportato per un tempo certo (nel caso in esame, cinque anni) non può essere liquidato meno di un danno che verosimilmente si sopporterà, in futuro, per un identico arco di tempo. Il tempo, infatti, esprime la durata della sofferenza che si è patita o che si dovrà patire, ma a parità di durata deve corrispondere, tendenzialmente, parità di risarcimento.
I cinque anni nei quali la sfortunata signora M. è sopravvissuta col suo carico di invalidità non possono essere liquidati con una somma minore rispetto ai medesimi cinque anni vissuti da un’altra persona che, viceversa, sia sopravvissuta fino al termine del giudizio e sia morta, magari, molti anni dopo.Illuminanti e corretti sono, sotto questo profilo, i conteggi contenuti nel quarto motivo dell’odierno ricorso che pongono in evidenza le incongruenze della tabella milanese. Come si è già detto, i ricorrenti hanno rilevato che detta tabella per i soggetti che sopravvivono prevede, per una persona di 72 anni (quale la M. nel momento dell’incidente) che riporti il 62 per cento di invalidità, un risarcimento pari ad Euro 434.647. Ora, anche calcolando un’aspettativa di vita fino a 87 anni cosa che pare eccessiva, visto che per l’ISTAT essa si colloca, per le donne, intorno a 83-85 anni – ciò significa che per un soggetto che si trovi nella situazione della M. le tabelle riconoscono, in caso di sopravvivenza, un risarcimento pari ad Euro 28.976 per ogni anno (Euro 434.647 diviso 15, cioè gli anni di aspettativa di vita; ed è appena il caso di rilevare che, in caso di aspettativa di vita inferiore, il valore di ogni anno sarebbe maggiore, essendo il divisore costituito da un numero minore). Moltiplicando la somma di Euro 28.976 per cinque, si ha la somma di Euro 144.880, ben maggiore rispetto a quella liquidata dalla Corte d’appello; solo riconoscendo questa somma si potrebbe affermare che i cinque anni di vita residua della M. sono stati risarciti nella stessa misura in cui sarebbero stati risarciti se ella fosse rimasta in vita”.


Qui sotto potete leggere e scaricare l’intera sentenza

É interessante, dal punto di vista medico-legale, che la censura dei Supremi Giudici va, questa volta, a comprendere, come più sopra riportato, uno specifico aspetto medico-legale. Viene da chiedersi, di conseguenza, che, forse, il controllo dal punto di vista medico-legale di alcune teorie liquidative forse dovrebbe essere, come dire, più stretto e degno di dibattito interno soprattutto se consideriamo altri aspetti dannosi affrontati dall’Osservatorio di Milano in senso tabellare. Vien subito in mente quelli riferibili al cosiddetto danno “catastrofale” o “terminale” (vedi documento scaricabile pag. 77) ove risultano essere stati applicati i medesimi principi riduttivi – sofferenza che si attenua per adattamento del soggetto all’approssimarsi della fine – anche se su un terreno diverso a cui, però, si è voluta dare una patina di scientificità non supportata però da aspetti clinici probanti.

Altro ottimo motivo di discussione per tutta la nostra comunità medico-legale.

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