Abstract
Si stanno rincorrendo su alcuni siti internet notizie derivanti dall’interpretazione dell’Ordinanza della Corte di Cassazione Sezione 5 n. 29435 del 10/10/2022 in merito al fatto che il COVID 19 sarebbe classificabile come malattia professionale. Nulla è di più frainteso.
. . . .
Il fatto
Il ricorso in Cassazione deriva dal fatto che la Corte di Appello ha confermato la sentenza del Tribunale con la quale era stata rigettata la domanda di riconoscimento di copertura INAIL, e quindi di indennizzo, per l’infezione da virus HCV (epatite) mossa da un infermiere di una RSA, ove aveva svolto la propria attività lavorativa.
Il ricorrente non ricordava momenti in cui ebbe a pungersi accidentalmente, mentre riteneva sufficiente il fatto che ebbe a medicare ulcere da decubito e curare pazienti anziani epatopatici nel corso della sua mansione presso la RSA, ma nei motivi del ricorso adduceva la violazione dell’art. 4 L 210/1992 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati. Art. 4 – Il giudizio sanitario sul nesso causale tra la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio e la menomazione dell’integrità psico-fisica o la morte è espresso dalla commissione medico-ospedaliera di cui all’art. 165 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092. 2. La commissione medico-ospedaliera redige un verbale degli accertamenti eseguiti e formula il giudizio diagnostico sulle infermità e sulle lesioni riscontrate. 3. La commissione medico-ospedaliera esprime il proprio parere sul nesso causale tra le infermità o le lesioni e la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio. 4. Nel verbale è espresso il giudizio di classificazione delle lesioni e delle infermità secondo la tabella A annessa al testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1981, n. 834.) e dell’art. 3 DPR n. 1124/1965 (Art. 3 – L’assicurazione è altresì obbligatoria per le malattie professionali indicate nella tabella allegato n. 4, le quali siano contratte nell’esercizio e a causa delle lavorazioni specificate nella tabella stessa ed in quanto tali lavorazioni rientrino fra quelle previste nell’art. 1. La tabella predetta può essere modificata o integrata con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro per il lavoro e le politiche sociali, di concerto con il Ministro della salute, sentite le organizzazioni sindacali nazionali di categoria maggiormente rappresentative. L’assicurazione è obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro. Per le malattie professionali, in quanto nel presente titolo non siano stabilite disposizioni speciali, si applicano quelle concernenti gli infortuni.).
Il ricorrente assumeva che:
- l’origine lavorativa della malattia virale era stata acclarata dalla Commissione per l’indennizzo ai sensi della Legge 210/1992 e che quindi l’INAIL non avrebbe potuto disconoscere i relativi effetti;
- era errato richiedere, in presenza di malattia tabellata, pur multifattoriale, la prova certa del fatto origine della malattia;
- anche attraverso il richiamo alle tabelle di cui al d.p.r. 1124/1965, il giudizio di ragionevole probabilità può essere sviluppato anche in base alla compatibilità della malattia quale desunta dalla tipologia delle mansioni svolte, dalla durata e dal tempo della prestazione lavorativa e per l’assenza di altri fattori extra-professionali, potendo a tale scopo utilizzare congiuntamente anche dati epidemiologici.
La Suprema Corte non condivideva i motivi, rigettava la domanda e rimandava alla stessa Corte di Appello affinchè svolgesse “l’accertamento che pertiene ai casi come quello di specie, da operare ricostruendo in via probabilistica l’esistenza o meno di nesso causale tra l’evento morboso denunciato e l’attività professionale, secondo la tipologia di essa e le modalità concrete del suo svolgimento, ma senza necessità di riscontrare l’esistenza di uno specifico episodio o contatto infettante in occasione di lavoro”.
.
Il messaggio
La lettura dell’ordinanza consente di tratte le seguenti riflessioni:
- le valutazioni ex Legge 210/1992 non dispiegano alcun effetto, né sono vincolanti, per i giudizi da emettersi e emessi dall’INAIL, in quanto questo è soggetto autonomo rispetto al Ministero della Salute;
- il richiamo da parte del ricorrente delle tabelle di cui all’art. 139 dpr 1124/1965 non è fondato; vi è netta differenza tra l’elenco della malattia professionali di cui al DM 10 giugno 2014, per cui ai sensi dell’art 139 dpr 1124/1965 è obbligatoria la denuncia e l’elenco delle malattie professionali di cui all’Allegato 4 del dpr 1124 modificato dall’art. 10 comma 3 del Decreto Legislativo 38/2000 e incluse nel Decreto Ministeriale 19 Aprile 2008; un conto è l’elenco per cui è obbligatoria la denuncia ai sensi dell’art. 139 TU (DM 10 giugno 2014), suddiviso in tre liste, ove le epatiti A, B e C sono gli agenti delle malattie epatiche, ma ciò non indica che l’agente sia inquadrato come una “malattia”, ma lo è il suo effetto patologico; un conto sono le tabelle di cui al DM 19 aprile 2008, che identifica le “malattie causate da” e le lavorazioni con i relativi periodi massimi di indennizzabilità, per le quali è riconosciuta la presunzione legale d’origine;
- rispetto all’infezione virale, per dare continuità all’indirizzo risalente e mai contraddetto: “nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo – fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione» con l’aggiunta che «la relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici”.
Tralasciando discussioni più tecniche, per quanto molto stimolanti, in questa ordinanza non si ribalta l’assioma risalente a Borri nel 1912 “causa violenta causa virulenta”, né si ritiene che un’infezione virale sia da classificarsi come malattia, intesa secondo le regole dell’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali.
Ciò che si sottolinea, nuovamente, è come un evento violento, esterno ed accidentale, con penetrazione nell’organismo (che altro non è che l’infortunio) possa nel tempo sviluppare i propri effetti negativi manifestandosi come una malattia, ossia una patologia persistente nel tempo. L’ordinanza fa leva sul nesso causale e sulle regole civilistiche applicabili nel fatto specifico, che il Giudice deve applicare caso per caso, ecco perché la Suprema Corte dispone il rinvio.
Il facile fraintendimento del lessico utilizzato ed il relativo parallelismo che si può ritrovare su alcuni siti con il COVID 19 sono un periglioso veicolo di disinformazione, che fa deviare dalla retta via, secondo la formula y=ax2+c.
Qui potete leggere e scaricare l’intera sentenza
VUOI APPROFONDIRE QUESTO ARGOMENTO?
Leggi anche: Esiti Covid19: le indicazioni valutative INAIL