Il caso:
Presso la Montefibre si produceva il nylon, materiale la cui lavorazione avviene ad altissime temperature, per la sopportazione delle quali si utilizzavano impianti e macchinari rivestiti di amianto, le cui fibre si liberavano nell’aria a causa dell’usura dei macchinari stessi.
Nel corso degli anni, diversi lavoratori hanno sviluppato malattie asbesto-correlate, in molti casi con esito mortale, sicché sono stati chiamati a rispondere penalmente alcune dei soggetti che negli anni dell’esposizione avevano ricoperto incarichi datoriali e direttivi.
Più precisamente, un primo filone processuale si è concluso con la condanna definitiva di alcuni imputati per i casi di asbestosi e l’assoluzione di tutti per i casi di mesotelioma (Cass. pen., n. 38991/2010). Il secondo filone è quello interessato dalla sentenza in epigrafe e si fonda sull’imputazione di 11 persone per il reato di omicidio colposo, per la morte di 17 dipendenti deceduti a causa di tumore polmonare e mesotelioma pleurico, nonché per il reato di lesione colpose in riferimento alle placche pleuriche sviluppate da altri 8 operai.
Nel 2011 il Tribunale di Verbania aveva assolto tutti gli imputati, ritenendo non provato il rapporto di causalità, mentre i giudici d’appello avevano parzialmente riformato la sentenza con conseguente condanna di alcuni degli imputati a pene comprese tra 1 anno e 2 anni e 10 mesi di reclusione ed al risarcimento dei danni a favore delle parti civili.
Tuttavia, le motivazioni adoperate dalla Corte d’Appello in punto di accertamento causale e di accertamento dell’elemento soggettivo sono state sottoposte al vaglio della Corte di cassazione a seguito di ricorso presentato da alcuni degli imputati.
Ricognizione:
Assoluzione in primo grado, condanna in appello ed ora annullamento con rinvio ad opera della Corte di Cassazione che, dunque, non ha ritenuto pienamente convincente il ragionamento inferenziale sul quale i giudici di appello hanno fondato le condanne.
Giova preliminarmente rilevare che i giudici della Cassazione hanno anzitutto censurato l’omessa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, vincolando i giudici del rinvio a procedere alla riassunzione delle dichiarazioni dei consulenti tecnici degli imputati.
Può a questo punto procedersi con l’esame dei profili motivazionali.
1) La titolarità dei poteri-doveri in materia prevenzionistica
Per un corretto inquadramento della questione oggetto di trattazione, la Suprema Corte premette che i reati ascritti agli imputati hanno struttura di reati commissivi, incentrati sulla esposizione di lavoratori ad uno specifico rischio, derivante dal contatto con le fibre di amianto aerodisperse.
Detta considerazione incide sull’individuazione del soggetto attivo del reato, che non è colui che rivestiva una posizione di garanzia, bensì colui il quale ha tenuto la condotta attiva. Tuttavia, in una struttura societaria complessa, questa ricerca deve fare i conti con l’articolazione concreta della compagine, per identificare, al di là dei ruoli formalmente ricoperti, a chi debba imputarsi la decisione di esporre i lavoratori all’agente patogeno nelle condizioni date e chi, avendo residui compiti di controllo, non li abbia svolti.
Tale operazione richiede un’accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestíonale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione, onde concretamente individuare la figura istituzionale che può essere razionalmente chiamata a governare il rischio considerato e la persona fisica che incarna concretamente quel ruolo (Cass. pen., Sez. Un., n. 38343/2014).
Tuttavia, la sentenza d’appello ha pretermesso la concreta analisi del ruolo avuto dagli imputati in riferimento alla esposizione dei dipendenti all’asbesto, imponendosi l’annullamento della stessa per una nuova valutazione in merito di tale punto.
2) Il rilievo del sapere scientifico nel processo penale
Poiché il giudice è portatore di una “legittima ignoranza” a riguardo delle conoscenze scientifiche, nell’ambito del processo penale riceve quella che risulta essere accolta dalla comunità scientifica come la legge esplicativa – si dice ne sia consumatore – e non ha autorità per dare patenti di fondatezza a questa piuttosto che a quella teoria.
L’acquisizione della legge che funge da criterio inferenziale non è però acritica; anzi è in questo segmento dell’attività giudiziale che si condensa l’essenza di questa. Infatti, non essendo esplorabile in autonomia la valenza intrinseca del sapere introdotto dall’esperto, l’attenzione si sposta sugli indici di attendibilità della teoria: Per valutare l’attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in discussione l’ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate. L’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove. Si è aggiunto che il primo e più indiscusso strumento per determinare il grado di affidabilità delle informazioni scientifiche che vengono utilizzate nel processo è costituto dall’apprezzamento in ordine alla qualificazione professionale ed all’indipendenza di giudizio dell’esperto.
Occorre dunque ribadire che il giudizio penale non può essere il luogo ove si forma il sapere scientifico, che è processo di estrema complessità, di imprevedibile proiezione temporale e di necessaria dimensione universale (nel senso del coinvolgimento dell’intera comunità scientifica). Il sapere scientifico, altrove consolidatosi, giunge nel processo penale attraverso gli esperti; al giudice sta il compito di assicurare la competenza e l’imparzialità di giudizio del medium e di verificare con l’ausilio di questi, attraverso una documentata analisi della letteratura scientifica universale in materia, l’esistenza e l’apporto della legge scientifica di copertura.
3) Il rapporto di causalità
Ciò premesso quanto alla rilevanza del sapere scientifico nella vicenda processuale penale, la Corte di Cassazione affronta le censure relative all’accertamento del rapporto di causalità, delineando criteri differenti in riferimento alle diverse patologie prese in considerazione.
In riferimento ai tumori polmonari, i giudici di legittimità precisano preliminarmente che in presenza di patologie neoplastiche multifattoriali, la sussistenza del nesso causale non può essere esclusa sulla sola base di un ragionamento astratto di tipo deduttivo, che si limiti a prendere atto della ricorrenza di un elemento causale alternativo di innesco della malattia, dovendosi procedere ad una puntuale verifica – da effettuarsi in concreto ed in relazione alle peculiarità della singola vicenda – in ordine all’efficienza determinante dell’esposizione dei lavoratori a specifici fattori di rischio nel contesto lavorativo nella produzione dell’evento fatale (Cass. pen., n. 37762/2013). In tal modo, focalizzano l’attenzione sulla necessità dell’accertamento della causalità individuale.
Ciò posto, occorre rilevare che i giudici di appello si sono limitati a rimarcare la generale valenza cancerogena dell’amianto, nonché la generale efficacia concausale di asbesto e tabacco, ma non hanno in alcun modo motivato in ordine alla concreta verificazione di tali effetti sinergici rispetto ai singoli lavoratori, pretermettendo il dovuto accertamento della causalità individuale.
In riferimento all’accertamento della derivazione dall’esposizione all’amianto dei decessi per mesotelioma, la Suprema Corte ancora una volta censura il ragionamento della Corte d’appello, i quali hanno sostenuto che l’inizio dell’esposizione determinerebbe un immediato inizio dell’induzione, ed anche che la fine dell’induzione sarebbe calcolabile risalendo nel tempo dalla data della diagnosi per un numero di anni pari alla durata mediana secondo Greengard. In tal modo, i giudici di merito hanno fondato la loro decisione su di un principio non adeguatamente supportato da argomenti in ordine alla sua attendibilità nel quadro della letteratura scientifica più accreditata, finendo per creare un nuovo dato scientifico piuttosto che limitarsi ad utilizzarne uno preesistente.
4) La colpa in senso soggettivo
La formula legale della colpa espressa dall’art. 43 c.p., delinea un primo e non controverso tratto distintivo di tale forma di imputazione soggettiva, di carattere oggettivo e normativo.
Tale primo profilo è incentrato sulla violazione di una norma cautelare, ha la funzione di orientare il comportamento dei consociati ed esprime l’esigenza di un livello minimo ed irrinunciabile di cautele nella vita sociale.
Accanto al profilo obiettivo e impersonale così indicato, ve n’è un altro di natura più squisitamente soggettiva, solo indirettamente adombrato dalla definizione legale, che sottolinea nella colpa la mancanza di volontà dell’evento. Tale connotato negativo ha un significato inevitabilmente ristretto che si risolve essenzialmente sul piano definitorio e classificatorio, alludendo infatti alla certificazione del confine con l’imputazione dolosa.
Ma il profilo soggettivo della colpa ha anche un connotato positivo, individuato nella capacità soggettiva dell’agente di osservare la regola cautelare, ossia nella concreta possibilità di pretendere l’osservanza della regola stessa: in poche parole, nell’esigibilità del comportamento dovuto.
Solo in presenza di tale aspetto può giustificarsi il rimprovero personale rivolto all’agente, ossia attraverso l’introduzione di una doppia misura del dovere di diligenza, che tenga conto non solo dell’oggettiva violazione di norme cautelari, ma anche della concreta capacità dell’agente di uniformarsi alla regola, valutando le sue specifiche qualità personali.
Tuttavia, al canone della evitabilità dell’evento deve aggiungersi quello della prevedibilità dello stesso, che permette di definire il comportamento doveroso e, conseguentemente, di apprezzare come violazione di regola cautelare la condotta all’esame.
Va inoltre precisato che nel riscontro della componente oggettiva della colpa assume rilievo la verifica che l’evento realizzatosi costituisca concretizzazione del rischio innescato con la violazione della regola cautelare; e, in questo accertamento, non acquista rilievo il punto di vista di un particolare soggetto, ma la funzione preventiva che la regola è oggettivamente in grado di assolvere.
Quando invece si apre la verifica della colpa in senso soggettivo, e si discute della prevedibilità ed evitabilità, non si fa più riferimento ad un agente modello ideale ma proprio all’imputato, agente concreto; è della prevedibilità da parte di questi che si tratta; è dell’agente concreto che vanno valutate le reali condizioni di operatività, per comprendere se la violazione cautelare, ormai presupposto acquisito, anche nella sua efficienza causale, sia del tutto scusabile (perchè non esigibile in concreto un comportamento pur dovuto).
Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte ritiene fondata la doglianza difensiva, che lamenta il vuoto motivazionale in ordine all’elemento soggettivo colposo degli imputati.