Cass. pen., Sez. IV, 7 giugno 2017, n. 28187 (est. Blaiotta-Montagni)
Il caso
La Corte di Cassazione si esprime per la prima volta in riferimento alla nuova disciplina della responsabilità medica contenuta nella cd. “Legge Gelli-Bianco”, affrontando un caso di responsabilità colposa di uno psichiatra, dirigente di un centro di salute mentale, per atti etero-aggressivi posti in essere da un paziente nei confronti di altro malato ricoverato nella medesima struttura, nel gennaio 2014.
Nel dettaglio, il G.I.P. presso il Tribunale di Pistoia dichiarava non luogo a procedere nei confronti del medico psichiatra, al quale si contestava, quale medico psichiatra responsabile dell’ufficio Salute Mentale ASL 3 di Pistoia avente in cura il paziente G.L., nonché quale psichiatra di riferimento del piano riabilitativo redatto per il richiamato paziente, di avere colposamente posto in essere, ai sensi dell’art. 589 c.p., una serie di condotte attive ed omissive, da qualificarsi come condizioni necessarie perché il L. ponesse in essere un aggressione sfociata nella morte dell’altro paziente M.T. Difatti, il L. ebbe a sferrare, la notte del 16 gennaio 2014, numerosi colpi al capo e al collo del T. con un’ascia lasciata incustodita presso la richiamata struttura, perché infastidito dal comportamento della persona offesa.
Nella sentenza del G.I.P. si rileva che nella condotta dell’imputato non emergono profili di rimproverabilità colposa e che l’azione dello psichiatra non può considerarsi come causa scatenante dell’imprevedibile gesto omicidiario.
Avverso la citata sentenza ha proposto ricorso per cassazione la parte civile. Il ricorrente lamenta un errore nell’applicazione della legge penale, in relazione ai profili di colpa commissiva ed omissiva, sfociato in un erronea valutazione del G.I.P. rispetto ai profili di colpa ascrivibili all’imputato, ed altresì un vizio motivazionale in ordine alla rilevanza della riduzione della terapia farmacologica. Infine, viene denunciato un vizio motivazionale in ordine alla ritenuta imprevedibilità del gesto omicidiario, ripercorrendo la storia clinica del L., caratterizzata da abuso di sostanze stupefacenti, esplosioni di rabbia e da un fallito gesto suicidiario, oltre che dalla pregressa uccisione della fidanzata S.G.
Ricognizione
1) La responsabilità dello psichiatra
La Corte di Cassazione censura preliminarmente la scelta del giudice di merito di negare l’espletamento di apposita perizia per chiarire la conferenza delle scelte terapeutiche effettuate dal sanitario imputato, in quanto scelta che non tiene conto dell’insegnamento espresso dal diritto vivente rispetto all’apprezzamento della prova scientifica nel giudizio penale.
Ciò posto, la Suprema Corte affronta il tema della responsabilità colposa del medico psichiatra. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità già ha chiarito che l’obbligo giuridico che grava sullo psichiatra risulta potenzialmente qualificabile al contempo come obbligo di controllo, equiparando il paziente ad una fonte di pericolo, rispetto alla quale il garante avrebbe il dovere di neutralizzarne gli effetti lesivi verso terzi, e di protezione del paziente medesimo, soggetto debole, da comportamenti pregiudizievoli per se stesso. In tali casi, e tenendo conto della complessità della materia psichiatrica, il giudice deve verificare, con valutazione ex ante, l’adeguatezza delle pratiche terapeutiche poste in essere dal sanitario a governare il rischio specifico, pure a fronte di un esito infausto sortito dalle stesse; in tale percorso valutativo, vengono in rilievo le raccomandazioni contenute nelle linee guida, in grado di offrire indicazioni e punti di riferimento, tanto per il medico nel momento in cui è chiamato ad effettuare la scelta terapeutica adeguata al caso di specie, quanto per il giudice che deve procedere alla valutazione giudiziale di quella condotta (Cass. pen., n. 4391/2012).
2) La riforma in materia di responsabilità medica
Ciò premesso in linea generale, occorre rilevare che il quadro normativo relativo alla materia della responsabilità medica è stato modificato da una recente novella legislativa (L. n. 24/2017), sulla cui portata in riferimento al caso di specie occorre interrogarsi.
La nuova disciplina prevede la non punibilità dell’agente che rispetti le linee guida “accreditate” (secondo modalità che verranno di seguito approfondite). Tuttavia, la disciplina diviene di disarticolante contraddittorietà quando si pone tale enunciato in collegamento con la precedente parte del testo normativo in base alla quale il novum trova applicazione “quando l’evento si è verificato a causa di imperizia”.
La contraddizione potrebbe essere risolta sul piano dell’interpretazione letterale, ipotizzando che il legislatore abbia voluto escludere la punibilità del sanitario imperito che abbia cagionato un evento lesivo ove, in qualche momento della relazione terapeutica, abbia comunque fatto applicazione di linee guida qualificate. Un esempio tratto dalla prassi può risultare chiarificatore. Un chirurgo imposta ed esegue l’atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere il peduncolo della neoformazione, taglia un’arteria con effetto letale. In casi del genere, intuitivamente ed al lume del buon senso non può ammettersi che il sanitario vada esente da responsabilità solo perché le linee guida di fondo sono state rispettate, poiché si tratterebbe di soluzione irragionevolmente violativa del diritto alla salute del paziente, di cui all’art. 32 Cost., nonché in contrasto con i principi fondanti della responsabilità penale, ed in particolare con il principio di colpevolezza, per come delineato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite (cfr. Cass. pen., Sez. Un., n. 38343/2014).
E questa conclusione appare ancor più coerente in considerazione del rilievo scientifico e giuridico delle linee guida, che hanno contenuto orientativo ed esprimono raccondandazioni; e vanno distinte da strumenti di “normazione” maggiormente rigidi e prescrittivi, solitamente denominati “protocolli” o check list. Esse non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti; e, dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico.
D’altra parte, esse non esauriscono la disciplina dell’ars medica. Da un lato, infatti, vi sono aspetti delle medicina che non sono per nulla regolati da tale genere di direttiva. Dall’altro, pure nell’ambito di contesti che ad esse attingono, può ben accadere che si tratti di compiere gesti o di assumere decisioni che le direttive in questione non prendono in considerazione. In tali situazioni, la considerazione della generica osservanza delle linee guida costituisce un aspetto irrilevante ai fini della spiegazione dell’evento e della razionale analisi della condotta ai fini del giudizio di rimproverabilità colposa. Insomma, razionalità e colpevolezza ergono un alto argine contro l’ipotesi che voglia, in qualunque guisa, concedere, sempre e comunque, l’impunità a chi si trovi in una situazione di verificata colpa per imperizia.
Peraltro, anche ulteriori ragioni militano contro l’ipotesi interpretativa prospettata. Occorre rammentare che le incriminazioni di cui si discute costituiscono un primario, riconosciuto strumento di protezione dei beni della vita e della salute. E’ ben vero che in ambito terapeutico la necessità di non mortificare l’iniziativa del professionista conduce a soluzioni che tendono a limitare la sua responsabilità alle ipotesi di colpa grave, quantomeno nei casi maggiormente complessi sotto il profilo tecnico. Tuttavia, la soluzione interpretativa sin qui esaminata, implicando un radicale esonero da responsabilità, è priva di riscontri in altre esperienze nazionali e implicherebbe un’inaccettabile vulnerazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), in contrasto con le stesse dichiarate finalità della legge; inoltre, stabilirebbe per il medico uno statuto normativo irrazionalmente diverso rispetto a quello di altre professioni altrettanto rischiose e difficili.
A ciò va aggiunto che nel valutare la portata “depenalizzante” della disciplina devono considerarsi anche alcuni suoi aspetti civilistici. In particolare, l’art. 7 della L. n. 24/2017 al comma 3 recita che “…. il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’art. 5 della presente legge e dell’art. 590 sexies c.p….”. Per effetto di tale richiamo, il rispetto delle linee guida, pur non escludendo la responsabilità civile, andrebbe ad incidere in senso negativo sulla quantificazione del danno, impedendo alla vittima di ottenere adeguati protezione e ristoro anche in ambito civilistico (a differenza di quanto avveniva attraverso il regime giuridico di cui alla L. n. 189/2012).
3) L’interpretazione della Suprema Corte
In considerazione di siffatte osservazioni, la Suprema Corte percorre un itinerario alternativo nell’interpretazione della novella legislativa, valorizzando la finalità sottesa alla stessa, ossia quella di garantire la sicurezza delle cure, la corretta gestione del rischio clinico, il corretto impiego delle risorse.
Funzionale a tali finalità è l’art. 5, che costruisce il sistema delle cd. “linee guida certificate”, specificando che i sanitari, fatte salve le specificità del caso concreto, devono attenersi alle linee guida accreditate da istituzioni individuate dal Ministero della salute.
Dunque, da un lato è chiara la consapevolezza che si tratta di direttive di massima, che devono confrontarsi con le peculiarità di ciascuna situazione concreta, adattandovisi. Dall’altro, emerge la precisa volontà di costruire un sistema istituzionale, pubblicistico, di regolazione dell’attività sanitaria, che ne assicuri lo svolgimento in modo uniforme, appropriato, conforme ad evidenze scientifiche controllate. In tal modo, si auspica il superamento delle incertezze operative emerse dopo l’entrata in vigore della L. n. 189/2012.
Alla luce di questi obiettivi deve leggersi il successivo art. 6 (che introduce il nuovo art. 590 sexies c.p.). La norma, perché sia esclusa la responsabilità del medico richiede l’applicazione delle predette “linee guida certificate”, ove appropriate al caso concreto, e cioè ove non vi siano ragioni, dovute solitamente alle comorbilità, che suggeriscono di discostarsene radicalmente. Insomma, quando le linee guida non sono appropriate e vanno quindi disattese, l’art. 590sexies cit. non viene in rilievo e trova applicazione la disciplina generale prevista dagli artt. 43, 589 e 590 c.p.
Tuttavia, in considerazione del surriferito sistema di certificazione, il professionista si troverà ad agire in una situazione di ben maggiore determinatezza rispetto al passato, dissipandosi le incertezze legate alla possibilità di differenti approcci tecnico-scientifici ad una medesima questione.
Tale ricostruzione conferisce coerenza anche all’espressione “a causa di imperizia” cui prima si è fatto riferimento. Il legislatore ha ritenuto di limitare l’innovazione alle sole situazioni astrattamente riconducibili alla sfera dell’imperizia, cioè al profilo di colpa che involge, in via ipotetica, la violazione delle leges artis, contraddicendo espressamente la giurisprudenza che aveva reputato applicabile il regime di cui alla L. n. 189/2012 anche in ipotesi connotate da negligenza (ex plurimis Cass. pen., n. 23283/2016).
Ad ogni modo, il catalogo delle linee guida non può esaurire del tutto i parametri di valutazione. E’ ben naturale, infatti, che il terapeuta possa invocare in qualche caso particolare quale metro di giudizio anche raccomandazioni, approdi scientifici che, sebbene non formalizzati nei modi previsti dalla legge, risultino di elevata qualificazione nella comunità scientifica, magari per effetto di studi non ancora recepiti dal sistema normativo di evidenza pubblica delle linee guida.
4) La natura giuridica
Tale lettura scorge nella riforma una nuova regola di parametrazione della colpa (che incide sui confini del reato quale sorta di “abolitio criminis”), non vulnerata dal fatto che il testo allude all’osservanza delle linee guida come causa di esclusione della punibilità.
Infatti, tale espressione si rinviene in molti testi normativi ed anche nel codice con significati diversi e non di rado atecnici. Basti considerare la disciplina dell’imputabilità di cui all’art. 85 c.p. e ss. Secondo tali norme, la non imputabilità esclude la punibilità ma tale termine è usato in senso atecnico, posto che l’imputabilità è qualificata dalla giurisprudenza quale elemento della colpevolezza, collocandosi tra gli elementi costitutivi del reato.
Del resto, la stessa L. n. 189 del 2012, art. 3, parlava di esclusione della responsabilità: espressione atecnica che questa Corte, come si è visto, ha collocato nella dogmatica della colpa.
5) Problemi di diritto intertemporale
La conclusione di cui al par. 4 si riverbera sul regime intertemporale della riforma. La novella legislativa, in base all’art. 2 c.p., troverà applicazione solo ai fatti commessi in epoca successiva alla sua entrata in vigore.
Ai fatti commessi anteriormente continuerà ad applicarsi l’abrogato art. 3 della L. n. 189/2012 in quanto disciplina più favorevole. Infatti, tale disciplina contiene la distinzione tra colpa lieve e colpa grave, con limitazione della responsabilità, per i casi in cui la condotta del sanitario risulti conforme alle linee guida, ai soli casi di colpa grave.
Al contrario, la nuova disciplina elimina tale distinzione, con conseguente venir meno della decriminalizzazione delle condotte connotate da colpa lieve.
Valga notare che la Suprema Corte affronta con modalità rapide e sommarie la questione intertemporale che, al contrario, per la sua complessità, avrebbe richiesto una più ponderata riflessione sulla natura giuridica della novella legislativa e sulle conseguenze di tale qualificazione in riferimento all’individuazione del regime giuridico applicabile alle vicende processuali in corso.
Per tutte le considerazioni svolte, si impone l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame, alla luce delle coordinate ermeneutiche tracciate, al Tribunale di Pistoia.