Abstract
Cosa vuol dire esattamente la Cassazione quando parla di autonoma rilevanza ai fini della responsabilità risarcitoria nel caso di violazione di corrette pratiche nell’acquisizione del consenso informato? Ce lo spiega l’ Avv. Antonio Serpetti di Querciara di Milano con questo articolo in cui commenta una recentissima sentenza della Suprema Corte
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L’acquisizione del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell’intervento medico, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria.
La Suprema Corte di cassazione, con la recente ordinanza n. 27109/2021 pubblicata il 6 ottobre 2021 (qui la potete scaricare), torna nuovamente ad esprimersi in tema di consenso informato.
I principi di riferimento, ribaditi nell’ordinanza in esame, pongono il complesso ordine sistematico, più volte esaminato dai Supremi Giudice, sotto una luce rischiarante.
I congiunti di una donna, deceduta dopo un intervento di angioplastica coronaria eseguito presso la struttura ospedaliera ove si era recata per sottoporsi a coronarografia, ricorrevano per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello che aveva respinto il gravame dagli stessi interposto avverso la pronunzia del Tribunale che aveva, solo parzialmente, accolto la domanda di risarcimento dei danni lamentati nei confronti della Azienda Sanitaria Provinciale.
I ricorrenti si dolevano che la Corte di appello avesse posto alla base della propria decisione la consulenza, svolta in sede penale, che, nell’escludere la responsabilità penale dei sanitari, aveva accertato che la defunta era portatrice di una grave forma di cardiopatia e che l’intervento di angioplastica era stato eseguito correttamente, senza considerare che, in caso di procedura medica non assentita, il sanitario e la struttura sono tenuti a rispondere dell’esito infausto, ancorché ad essi non imputabile, giacché è sul medico e sulla struttura che grava il rischio delle complicanze non imputabili, ma comunque prevedibili, dell’atto non assentito.
I ricorrenti eccepivano, altresì, non essersi considerato che, qualora i sanitari del nosocomio resistente avessero rappresentato alla paziente tutti i rischi connessi all’intervento praticato, nonché la possibilità di eseguire la procedura presso altre strutture specializzate – o comunque munite di un’unità di cardiochirurgia – sarebbe certamente plausibile sostenere, anche in via presuntiva, che la paziente avrebbe scelto di eseguire l’intervento altrove.
Risultava, peraltro, accertato che pochi giorni prima del ricovero presso il nosocomio convenuto, la donna era stata degente presso altra struttura per “cardiopatia ischemica in angiosclerotico iperteso-diabete mellito scompensato-insufficienza renale cronica”, e, all’atto della dimissione, i sanitari avevano già proceduto a fissare la data per esami di emodinamica presso l’ospedale convenuto.
Successivamente, la paziente accedeva in urgenza, poiché colta da “angina pectoris instabile”, al suddetto nosocomio, ove veniva sottoposta ad angioplastica coronarica due giorni dopo il ricovero, ancorché in tale struttura non vi fosse il reparto di cardiochirurgia.
Nel ravvisare l’insussistenza di profili di responsabilità medica dei sanitari che eseguirono l’intervento di angioplastica coronarica, la corte di merito aveva, invero, confermato la pronuncia del giudice di prime cure, il quale aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno da morte, affermando che:
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“un conto è la morte come conseguenza della condotta colposa dei medici nell’esecuzione dell’intervento – che fonda il titolo per il risarcimento del danno non patrimoniale per la morte del familiare – altro, e tutt’affatto diverso, conto è la violazione del consenso informato”, sottolineando che, nella fattispecie, “non è la mancanza del consenso informato la causa della morte (che sarebbe avvenuta anche in caso di consenso)”.
Nelle sentenze di merito, altresì, viene dato atto che “la lesione del diritto del paziente ad autodeterminarsi in ordine alla scelta dell’intervento medico prospettato – a tutela del quale vige l’obbligo per i medici del preventivo consenso informato – è un diritto proprio ed esclusivo del paziente, il quale è il solo legittimato a dolersi della relativa violazione ed a pretendere il ristoro delle conseguenze pregiudizievoli derivatene sulla propria personale sfera giuridica (eventualmente anche sotto il profilo delle sofferenze fisiche cui è andato inconsapevolmente incontro a seguito dell’intervento medico non autorizzato)”.
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La Suprema Corte accoglieva le doglianze sopra esposte, statuendo che, nella sentenza impugnata, erano stati disattesi, dalle corti di merito, i principi relativi al diritto all’autodeterminazione.
La Corte di legittimità ritiene che la motivazione dell’impugnata sentenza sia del tutto apodittica ed intrinsecamente illogica, nella parte in cui afferma che, ove effettivamente informata della situazione organizzativa della struttura, nonché della realistica prospettiva dell’esito infausto dell’operazione, la donna avrebbe scelto di farsi operare lo stesso presso il nosocomio. Emerge, con tutta evidenza, come la corte di merito pretenda di trarre dalla gravità delle condizioni di salute della paziente, la conseguenza che, in luogo di rinunziare a farsi ivi operare (optando per altra struttura dotata, quanto meno, di reparto di cardiochirurgia), la medesima si sarebbe addirittura indotta ad accelerare la realizzazione di quella realistica prospettiva, poi inesorabilmente verificatasi.
La Corte di cassazione ribadisce, quindi, nuovamente, che l’assenso ad una procedura medica non può, in nessun caso, ritenersi presuntivo stante la gravità delle condizioni cliniche del paziente e costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella dell’intervento medico, assumendo, la mancata acquisizione del consenso da parte del paziente, autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria.
Il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all’espressione di una consapevole adesione al trattamento proposto, e, quindi, alla sua libera e conscia autodeterminazione, atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. Il trattamento medico afferisce, invece, alla sfera del diverso diritto fondamentale alla salute (art. 32, co., Cost.).
L’adempimento della prestazione medica e la regolare acquisizione del consenso informato costituiscono due obbligazioni autonome, dovendo, il giudice, accertarsi se le conseguenze dannose successivamente verificatesi siano, in forza del criterio del più probabile che non, da considerarsi casualmente connesse all’atto medico non assentito. Trattandosi di una condotta attiva, e non già passiva, non vi è luogo a giudizio controfattuale.
In mancanza di valida acquisizione del consenso informato, l’intervento del sanitario è sicuramente illecito (al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità), anche quando sia nell’interesse del paziente, poiché l’obbligo del consenso costituisce legittimazione e fondamento di ogni trattamento medico. Trattasi di un obbligo che attiene all’informazione delle prevedibili conseguenze connesse alla procedura alla quale il paziente viene sottoposto, al fine di porlo in condizione di consentirvi consapevolmente.
Il consenso informato, infatti, deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, della portata e dell’estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo, all’uopo, idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell’informazione, le quali vanno adattate al suo livello culturale, mediante espressioni allo stesso comprensibili, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone (Cass. n. 2177/2016).
Il medico viene meno all’obbligo di fornire idonea ed esaustiva informazione non solo quando ometta del tutto di riferire la natura della cura prospettata, i relativi rischi e le possibilità di successo, ma anche quando ne acquisisca il consenso con modalità improprie (Cass. n. 19212/2015). L’informazione deve, inoltre, comprendere il possibile verificarsi, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento, dei rischi di un esito negativo dell’intervento e/o di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, ma anche di un possibile esito di mera “inalterazione”, e, pertanto, della relativa, sostanziale, inutilità, con tutte le conseguenze di carattere fisico e psicologico che ne possano derivare per il paziente.
Occorre precisare al paziente tutti gli eventi avversi possibili, anche qualora la probabilità di verificazione sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne praticamente certo il suo accadimento, poiché la valutazione dei rischi appartiene solamente al titolare del diritto ed il professionista – o la struttura sanitaria – non possono omettere di fornirgli tutte le dovute informazioni.
Secondo l’ermeneutica statuita dal giudice di legittimità ed in conformità al sistema normativo vigente, il diritto all’autodeterminzione deriva dall’art. 32, 2°co., Cost. (in base al quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), dall’art. 13 Cost. (che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica) e dall’art. 33 L. n. 833 del 1978 (che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.).
La necessità del consenso informato del paziente nell’ambito dei trattamenti medici, già prevista da numerose norme internazionali, è contemplata anche dall’art. 1 della legge n. 219 del 2017 (il quale tutela espressamente il diritto all’autodeterminazione della persona e regola le modalità di ricezione delle informazioni e di espressione, imponendone, peraltro, anche la forma scritta, e la sua adeguata documentazione).
L’obbligo del medico di acquisire il consenso informato del paziente costituisce, pertanto, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario, atteso che, senza la preventiva acquisizione di tale consenso, l’intervento – al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, come non è nel caso di specie – è sicuramente illecito, anche quando sia svolto nell’interesse del paziente (Cass. n. 21748/2007).
Poiché l’obbligo informativo del medico si correla al diritto fondamentale del paziente alla consapevole adesione al trattamento sanitario propostogli, la prestazione che ne forma oggetto costituisce una prestazione distinta da quella sanitaria, la quale è finalizzata alla tutela del diverso diritto fondamentale alla salute. Ne viene che la violazione dell’obbligo assume autonoma rilevanza ai fini della responsabilità risarcitoria del sanitario, in quanto, mentre l’inesatta esecuzione del trattamento medico-terapeutico determina la lesione del diritto alla salute (art. 32, primo comma, Cost.), l’inadempimento dell’obbligo di acquisizione del consenso informato determina la lesione del differente diritto fondamentale all’autodeterminazione (art. 32, secondo comma, Cost. e Cass. n. 16503/2017).
Vengono, dunque, in considerazione due diritti fondamentali diversi, entrambi costituzionalmente tutelati: il diritto alla salute, leso dall’inesatta esecuzione della prestazione medico-terapeutica – lesione che può configurarsi anche in presenza di consenso consapevole – ed il diritto all’autodeterminazione, leso dalla violazione del dovere di informazione – lesione che può configurarsi anche in assenza di danno alla salute – allorché l’intervento terapeutico abbia un esito assolutamente positivo (Cass. n. 12505/2015).
Secondo un ormai consolidato orientamento della Suprema Corte di cassazione (Cass. n. 11950/2013) la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può, peraltro, causare due diversi tipi di danni:
- a) un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti;
- b) un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale, diverso dalla lesione del diritto alla salute e che possa aggiungersi ad esso (cfr. ex multis Cass. civ. 2854/2015; Cass. civ. 24220/2015; Cass. 24074/2017; Cass. 16503/2017).
.Il paziente ha, infatti, diritto di conoscere, con la necessaria e ragionevole precisione, le conseguenze dell’intervento al quale debba sottoporsi, onde prepararsi ad affrontarle con la maggiore e migliore consapevolezza, atteso che la Costituzione sancisce il rispetto della persona in qualsiasi momento della vita e nell’integralità della sua essenza psicofisica, in considerazione delle convinzioni morali, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive (Cass. n. 21748/2007; Cass. n. 23676/2008).
Secondo la Suprema Corte di cassazione, ad una corretta e compiuta informazione, conseguono:
- a) il diritto, per il paziente, di scegliere tra le diverse opzioni di trattamento;
- b) la facoltà di acquisire, se del caso, ulteriori pareri da altri sanitari;
- c) la facoltà di scelta di rivolgersi ad altro sanitario e/o ad altra struttura, che offrano maggiori e migliori garanzie (in termini percentuali) del risultato sperato, eventualmente anche in relazione alle conseguenze post-operatorie;
- d) il diritto di rifiutare l’intervento e/o la terapia e/o di decidere consapevolmente di interromperla;
- e) la facoltà di predisporsi ad affrontare le conseguenze dell’intervento, ove queste risultino, sul piano postoperatorio e riabilitativo, particolarmente gravose e foriere di sofferenze, prevedibili per il medico, quanto inaspettate per il paziente, a causa dell’omessa informazione (cfr. Cass. n. 7248/2018).
Il consenso, libero e informato, è volto a garantire la libertà di autodeterminazione terapeutica dell’individuo e costituisce un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi, consentendogli di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico o di rifiutare (in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale) la terapia o di decidere consapevolmente di interromperla; non può mai essere presunto o tacito, ma deve essere sempre espressamente fornito, dopo un’adeguata informazione (anch’essa esplicita) mentre presuntiva può essere la prova che il consenso informato sia stato prestato effettivamente ed in modo esplicito; in tal caso, il relativo onere probatorio ricade sulla struttura e sul medico. Ne consegue che, a fronte dell’allegazione di inadempimento da parte del paziente, è onere della struttura e del sanitario provare l’adempimento dell’obbligazione di fornire un’informazione completa ed effettiva sul trattamento e sulle sue conseguenze, senza che sia dato presumere il rilascio del consenso informato sulla base delle qualità personali del paziente o della gravità delle sue condizioni cliniche.
La Corte passa in rassegna tutte le ipotesi conseguenti ad una omessa od insufficiente informazione:
- 1) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi, nelle medesime condizioni, hic et nunc. In tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale;
- 2) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi. In tal caso, il risarcimento avrà ad oggetto il diritto alla salute e quello all’autodeterminazione del paziente;
- 3) omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi. In tal caso, il risarcimento sarà liquidato in via equitativa con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione, mentre la lesione della salute – da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – andrà valutata in relazione alla eventuale situazione “differenziale” tra il maggiore danno biologico conseguente all’intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto;
- 4) omessa informazione in relazione ad un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi. In tal caso, nessun risarcimento sarà dovuto;
- 5) Omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, ma che gli ha tuttavia impedito di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti. In tal caso, il danno da lesione del diritto alla autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente alleghi che, dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione, gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente (Cass. n. 28985/2019).
Secondo la Suprema Corte, la struttura dell’illecito deve essere ricostruita sulla base della necessaria distinzione tra responsabilità contrattuale o extracontrattuale, nonché tra l’individuazione dell’evento (c.d. danno-evento) e quella delle sue conseguenze dannose (c.d. danno-conseguenza). Il danno-evento è rappresentato dalla stessa esecuzione dell’intervento sulla persona del paziente, senza la previa acquisizione del consenso. Esso si genera, dunque, dalla tenuta di una condotta omissiva seguita da una condotta commissiva.
Il danno-conseguenza, (indicato dall’art. 1223 c.c. come “perdita subita” o come “mancato guadagno”), è, invece, rappresentato dall’effetto pregiudizievole che la mancanza dell’acquisizione del consenso e, quindi, il comportamento omissivo del medico seguito dal comportamento positivo di esecuzione dell’intervento, ha determinato sulla sfera del paziente, considerato che se le informazioni fossero state date, egli sarebbe stato in grado di decidere se consentire la pratica medica (Cass. n. 12505/2015 e Cass. n. 16503/2017).
Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito secundum legem artis, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e, dunque, senza un consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire all’allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, rilevando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e, cioè, della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione e le conseguenze pregiudizievoli che da esso sono derivate secondo un nesso di regolarità causale.
Il paziente che alleghi l’altrui inadempimento sarà, dunque, onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che:
- a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico;
- b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicché la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. “vicinanza della prova”;
- c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell’intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all’id quod plerumque accidit.
Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione, non potendosi configurare, ipso facto, un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l’impredicabilità di danni in re ipsa nel sistema della responsabilità civile (Cass. n. 28985/2019).
Sul punto, la Corte Suprema ha osservato che le conseguenze dannose della violazione dell’obbligo informativo sono rappresentate:
- dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento dell’intervento medico sulla sua persona, durante la sua esecuzione e nella relativa convalescenza;
- eventualmente, dalla diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell’attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene ai fini terapeutici, parti del corpo o la funzionalità di esse: poiché tale diminuzione si sarebbe potuta verificare solo se assentita sulla base dell’informazione dovuta e si è verificata in mancanza di essa; si tratta di conseguenza oggettivamente dannosa, che si deve apprezzare come danno-conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è bene diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona;
- eventualmente, dalle perdite relative ad aspetti della salute, con riferimento alla possibilità che, se il consenso fosse stato richiesto, il paziente avrebbe potuto determinarsi a rivolgersi ad altra struttura e ad altro medico, qualora si riveli che sarebbe stata possibile in relazione alla patologia l’esecuzione di altro intervento meno demolitorio o determinativo di minore sofferenza (Cass. n. 28985/2019, Cass. n. 12505/2015 e Cass. n. 16503/2017).
Tanto chiarito, la cassazione ha anche rilevato che tra le sequenze causali che diano esito alle suddette conseguenze, almeno la prima (sofferenza e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento dell’intervento medico sulla sua persona, durante la sua esecuzione e nella relativa convalescenza) costituisce sviluppo di circostanze connotate da normalità, ovverosia da normale frequenza statistica, corrispondendo all’id quod plerumque accidit. È, infatti, evidente che la mancata informazione determina, in capo al paziente, la perdita della possibilità di esercitare consapevolmente una serie di scelte, tra cui quella di non sottoporsi all’intervento (eventualmente anche nell’ipotesi in cui lo stesso fosse assolutamente necessario ed indifferibile in relazione alle sue condizioni di salute, atteso che la libertà di autodeterminazione va riconosciuta usque ad supremum exitum), o quella di non sottoporvisi immediatamente (in tutte le ipotesi in cui l’intervento non risulti indifferibile e consenta al paziente uno spatium deliberandi utilizzabile per riflettere o per assumere ulteriori informazioni sulla sua utilità od indispensabilità) o, ancora, quella di indirizzarsi altrove per la sua esecuzione. E’ altrettanto evidente che la perdita della possibilità di esercitare tutte queste opzioni non solo concreti una privazione della libertà del paziente di autodeterminarsi, ma determini anche una sofferenza psichica, in quanto gli preclude di beneficiare dell’apporto positivo che la corretta informazione avrebbe avuto sul grado di predisposizione psichica a subire l’intervento e le sue conseguenze, mentre, in un secondo momento, proietta il paziente stesso nella situazione di turbamento psichico derivante dalla constatazione degli effetti negativi del trattamento subito senza il suo consenso informato (Cass. n. 12505/2015, Cass. n. 16503/2017).
La Corte di legittimità, sul punto, ha statuito che è da ritenersi immediata, in quanto riferita al foro interno dell’individuo, la compromissione della genuinità dei processi decisionali fondati su dati alterati o incompleti per carenza di informazioni.
Ne consegue che la risarcibilità di tale danno-conseguenza non richiede una prova specifica, essendo integrato dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di sé, secondo un criterio di regolarità causale (Cass. n. 16503/2017 e Cass. n. 11749/2018).
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