Abstract
Un commento del nostro Davide Santovito ad una recente sentenza della Corte Costituzionale che ribadisce centralità della decisione della donna in tema di procreazione assistita.
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“Caro Lettore,
questa volta, differentemente dai precedenti asettici interventi, siediti comodo e leggi con attenzione queste poche righe che hanno l’ardire di riassumere concetti di biodiritto che testimoniano come le garanzie costituzionali siano baluardo di difesa di diritti inalienabili propri del genere umano, che vanno ben oltre le baruffe ideologiche che possono ascoltarsi nei talk show o leggersi sui quotidiani.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 161 del 24 luglio 2023 è tornata ad esprimersi in merito a sollevate questioni di illegittimità costituzione della legge n. 40 del 19 febbraio 2004 in riferimento all’art. 6, comma 3 ultimo periodo che recita: “La volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto congiuntamente al medico responsabile della struttura, secondo modalità definite con decreto dei Ministri della giustizia e della salute, adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Tra la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni.”.
Il fatto
Il fatto che è stato oggetto di valutazione da parte della Corte Costituzionale riguarda la storia di una coppia coniugata che accede alla procedura di procreazione assistita, per la quale la donna ed il coniuge avevano acconsentito alla fecondazione dell’ovocita e quindi alla crioconservazione dell’embrione. L’impianto, tuttavia, era differito a causa della scarsa qualità endometriale della donna, che nei mesi successivi si era ancora sottoposta ad apposite ed ulteriori terapie.
Il trasferimento in utero dell’embrione non era stato poi realizzato in quanto il marito, quattro mesi dopo al consenso alla fecondazione, si era allontanato dalla residenza familiare e quindi un anno dopo era stata formalizzata tra le parti la separazione consensuale.
Nonostante tutto, la donna, un anno dopo la separazione, aveva chiesto alla struttura sanitaria di procede all’impianto, ma il marito, dopo aver domandato la dichiarazione giudiziale della cessazione degli effetti civili del matrimonio, aveva formalmente revocato il consenso all’applicazione delle tecniche di PMA.
La donna quindi ricorreva in giudizio avverso il diniego all’impianto mosso dalla struttura sanitaria ed il tribunale ordinario, con ordinanza, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo della legge n. 40 del 204, quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca.
Tale revoca, essendo intervenuta dopo la fecondazione dell’ovulo, non sarebbe consentito dalla norma censurata dal Giudice e da qui, quindi, la questione rimessa alla Corte Costituzionale.
La lucidità del Giudice delle Leggi
La bellezza della sentenza della Corte Costituzionale risiede nella lucida e chiara analisi del bilanciamento dei Diritti in gioco, ponendo sui bracci del relativo strumento di giudizio, coloro che sono i depositari di tali diritti: l’uomo, la donna e l’embrione.
Lasciamelo scrivere, caro Lettore, che sebbene io non celi il mio profondo apprezzamento nei confronti di questa sentenza, solo un Giudice “donna” avrebbe potuto conciliare e dare sostanza di inchiostro ad un alto pensiero nel tema della filiazione derivante dall’applicazione di tecniche procreative, che non ha semplicemente a che fare con le persone, ma con il genere umano stesso. Questa sentenza dimostra come l’intenzione di avere un figlio esprime una fondamentale assunzione di responsabilità, ruolo centrale ai fini dell’acquisizione dello status filiationis, e sia profondamente radicata nel nostro ordinamento costituzionale, ma soprattutto come tale diritto sia altrettanto profondamente radicato nella donna, depositaria all’unisono di un’altra tutela costituzionale: quella della salute psico-fisica.
La richiesta di remissione alla Corte Costituzionale
Torniamo alla sentenza.
Il Giudice del Tribunale ordinario sollevando questioni di legittimità sottolinea che la norma in questione, l’art. 6 comma 3 legge 40 del 2004, dispone che:
- la coppia metta congiuntamente per iscritto la propria volontà di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) al medico responsabile della struttura sanitaria autorizzata;
- tra la manifestazione di volontà e l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore ai sette giorni;
- la volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti fino al momento della fecondazione dell’ovulo;
Per il Giudice del Tribunale, la norma contrasterebbe con i principi costituzionali, “quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca del consenso”.
Il rimettente osserva che la legge n. 40 del 2004 si prefigge lo scopo di tutelare «i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito» (art. 1, comma 1), a tal fine prevedendo diverse limitazioni al ricorso alla PMA, tra cui quella per cui possono accedervi esclusivamente coppie coniugate o conviventi (art. 5, comma 1). L’intervento di due precedenti sentenze della Corte Costituzionale (n. 151/2009 e n. 96/2015) ha mutato il contesto e la norma censurata pregiudicherebbe il diritto di scelta in ordine all’assunzione del ruolo genitoriale, in particolare nel caso in cui, in considerazione del decorso del tempo, l’impianto venga chiesto in presenza di «una situazione giuridica diversa» da quella esistente al momento della manifestazione della volontà, come sarebbe accaduto nella specie, in cui le parti dopo aver dato il consenso alla procreazione assistita in costanza di matrimonio, si sono separate consensualmente e non sono più conviventi.
Il Giudice ha quindi ritenuto di dover sollevare che la irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione violi:
- il diritto alla autodeterminazione, in ordine alla volontà di non diventare genitore;
- il rispetto alla vita privata e familiare (costrizione dell’uomo a diventare genitore contro la sua volontà);
- il diritto di eguaglianza, in quanto risulterebbe sacrificata solo la libertà individuale dell’uomo, quando la donna potrebbe continuare a rifiutare il trasferimento in utero dell’embrione;
- il diritto alla salute (art. 32 Cost.) per l’uomo, giacché finirebbe per assoggettare il componente maschile della coppia a un trattamento sanitario obbligatorio, con incidenza anche sulla sua integrità psicofisica;
Tralasciamo i punti e le osservazioni mosse dalle altre parti in causa, a cui si rimanda al testo integrale, la Corte Costituzione ritiene inammissibili e dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
Le motivazioni della sentenza della Corte
Ecco le motivazioni che fondano li diritto costituzionale che pongono al centro di tutta la procreazione assistita (e anche no sarebbe da dire) la tutela della donna e che in parte richiamano anche con qualche parallelismo la questione del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, ma questa è un’altra storia.
Innanzitutto i Magistrati della Corte Costituzionale individuano il presupposto su cui si sviluppa la delicata questione sollevata dal giudice rimettente:
“… a seguito dei suddetti interventi di questa Corte rivolti a dare corretto rilievo al diritto alla salute psicofisica della donna, il rapporto regola-eccezione relativo al divieto di crioconservazione originariamente impostato dalla legge n. 40 del 2004 si è, nei fatti, rovesciato: la prassi è divenuta quindi la crioconservazione – e con essa anche «la possibilità di creare embrioni non portati a nascita» (sentenza n. 84 del 2016) – e l’eccezione l’uso di tecniche di impianto “a fresco”. Nonostante l’art. 14, comma 3, continui a prevedere la formula «da realizzare non appena possibile», si è così determinata la possibilità di una eventuale dissociazione temporale, anche significativa, tra il consenso prestato alla PMA e il trasferimento in utero. Mentre questo era normalmente destinato ad avvenire nel breve spazio di pochissimi giorni dalla fecondazione, cioè dal momento in cui il consenso prestato dalla coppia diveniva irrevocabile, è oggi possibile che la richiesta dell’impianto degli embrioni crioconservati venga manifestata dalla donna (in virtù del proprio stato psicofisico) non solo a distanza di molto tempo da quel momento, ma anche in presenza di condizioni soggettive – coniugio o convivenza – assai diverse da quelle che necessariamente dovevano esistere in concomitanza all’accesso alle tecniche in discorso”.
Ed ecco come la Corte Costituzionale bilancia i diritti:
Per l’uomo:
- non vi è violazione del principio di eguaglianza, in quanto le situazioni in cui si trovano la donna e l’uomo sono profondamente diverse. Difatti non è consentito un impianto embrionale coercitivo. Inoltre la donna, dopo l’impianto, è esposta a terapia medica. Quindi vi è in gioco la tutela dell’integrità psicofisica. Si crea quindi una eterogeneità di situazioni che conduce ad escludere la prospettata violazione del principio di eguaglianza.
- È infondato la sollevata violazione della libertà di autodeterminazione. Sebbene la Corte manifesti la propria consapevolezza in merito alla giurisprudenza sulla legge 40/2004, con la conseguente possibilità di scissione temporale tra la fecondazione e l’impianto, che indubbiamente si ripercuote sulla libertà dell’uomo di autodetereminarsi, quando sia venuta meno quell’affectio familiaris sulla quale si era, in origine, fondato il comune progetto di genitorialità, è pur vero, scrive la Corte, chel’autodeterminazione dell’uomo matura in un contesto in cui egli è reso edotto del possibile ricorso alla crioconservazione, come introdotta dalla giurisprudenza costituzionale, e anche a questa eventualità presta, quindi, il suo consenso. Specifica ancora la Corte che le informazioni che il medico è tenuto a fornire devono pertanto necessariamente investire tutte le conseguenze del vincolo derivante dal consenso espresso, quindi sia la possibilità che si verifichi uno iato temporale (anche significativo) tra fecondazione e impianto, sia l’eventualità che questo avvenga quando, nelle more, sono venute meno le iniziali condizioni di accesso alla PMA. In questa prospettiva il consenso, manifestando l’intenzione di avere un figlio, esprime una fondamentale assunzione di responsabilità, che riveste un ruolo centrale ai fini dell’acquisizione dello status filiationis. Si ha quindi una specifica assunzione di responsabilità riguardo alla filiazione.
Per la donna:
- Il consenso prestato dall’uomo al momento della fecondazione determina il coinvolgimento di altri interessi costituzionalmente rilevanti attinenti alla donna, il primo dei quali è il diritto alla salute, posto che la donna, nel percorso di PMA, è immediatamente coinvolta con il proprio corpo, in forma incommensurabilmente più rilevante rispetto a quanto accade per l’uomo, posto che la stimolazione ovarica comporta anche il rischio di insorgenza di patologie anche gravi. In virtù di quel consenso maschile, la donna ha il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con importante investimento fisico ed emotivo, proprio in funzione della genitorialità. Tale coinvolgimento, di corpo e di mente della donna, culmina nella concreta speranza di generare un figlio a seguito dell’impianto dell’embrione in utero. Ne discende che questo investimento fisico e mentale è il frutto dell’affidamento in lei determinato dal consenso dell’uomo al comune progetto genitoriale. Pertanto, l’irrevocabilità del consenso è funzionale a salvaguardare l’integrità della donna dalle ripercussioni negative che su di lei produrrebbe l’interruzione del percorso intrapreso, ormai giunto alla fecondazione.
- Le linee guida del DM 1° luglio 2015 stabiliscono che la donna ha sempre il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati. Se così non fosse, l’età o mutamenti delle condizioni fisiche della donna potrebbero impedire l’impianto in utero e quindi precludere, a questo punto, in modo assoluto alla donna la libertà di autodeterminazione in ordine alla procreazione;La Corte Costituzionale ha già dichiarato insindacabile la scelta politico-legislativa di lasciare la donna unica responsabile della decisione di interrompere la gravidanza, senza riconoscere rilevanza alla volontà del padre. Mutatis Mutandis la Corte ritiene chela volontà dell’uomo in ordine al destino del concepito nella fase successiva alla fecondazione dell’ovocita perda rilevanza giuridica, in quanto la ratio risiede nel fatto che un impatto con il corpo della donna si verifica comunque anche nel processo necessario alla produzione degli embrioni.
Per l’embrione
- La Corte, in linea con la giurisprudenza sovranazionale e convenzionale, ha precisato che l’embrione «ha in sé il principio della vita» (sentenza n. 84 del 2016). Vita da intendersi quale vita umana, in quanto «la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano» (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, in causa C-4/10, sentenza 18 ottobre 2011, Brustle contro Greenpeace eV). L’embrione, si legge nella sentenza, è infatti generato a motivo della speranza che una volta trasferito nell’utero dia luogo a una gravidanza e conduca alla nascita, per cui «quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico».
- La sua «dignità», quindi, è «riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.», dovendo essere pertanto tutelata anche ove si sia al cospetto di embrioni soprannumerari o malati (sentenza n. 229 del 2015). È certamente vero, peraltro, che la tutela dell’embrione non è comunque assoluta e del resto «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute [psicofisica] proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare» (sentenza n. 27 del 1975). Tuttavia, va anche considerato che sinora la giurisprudenza costituzionale l’ha limitata solo nella direzione della «necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione» (sentenza n. 151 del 2009) e con quella «del diritto alla salute della donna» (sentenza n. 96 del 2015). Ove, dunque, si considerino la tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell’embrione crioconservato, che potrebbe attecchire nell’utero materno, risulta non irragionevole la compressione, in ordine alla prospettiva di una paternità, della libertà di autodeterminazione dell’uomo, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. La Corte sottolinea che la PMA, infatti, «mira a favorire la vita», volendo assistere la procreazione –cioè la nuova nascita – e non la (sola) fecondazione, per cui non è precluso che la relativa disciplina possa privilegiare, anche nella sopraggiunta crisi della coppia, la richiesta della donna che, essendosi fortemente coinvolta, come si è visto, nell’interezza della propria dimensione psicofisica, sia intenzionata, anche dopo che sia decorso un rilevante periodo di tempo dalla crioconservazione, all’impianto dell’embrione.
La Corte Costituzionale, dopo aver bilanciato tutti i diritti in gioco, ritiene del tutto costituzionalmente orientato e non irragionevole il fatto che la legge n. 40 del 2004 preveda in modo vincolante ed unilaterale l’irrevocabilità del consenso prestato dall’uomo.
Vi è anche un’altra lezione: il diritto della donna ad essere madre, e parallelamente a non esserlo, visto il suo profondo e diverso coinvolgimento fisico e mentale, è superiore a qualsivoglia altro “interesse”.
Questa è una grande lesione di diritto, anzi di biodiritto che dovrebbe essere insegnata non solo nelle aule universitarie, ma anche nelle scuole superiori.
Buona lettura.
Qui sotto potete leggere e scaricare l’intera sentenza
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