Abstract
La valutazione e la liquidazione del risarcimento del danno che interessa la capacità lavorativa specifica del leso è stato sempre un argomento spinoso. La Suprema Corte interviene facendo il punto e delineando regole precise.
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La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza 14241/23 del 24/5/2023 (Presidente Travaglino, Relatore Rubino) interviene su un tema da tempo negletto nelle dispute di natura civilistica in tema di risarcimento del danno. Si pronuncia infatti sulle modalità di valutazione e di liquidazione del danno alla capacità lavorativa specifica.
Il fatto
Si tratta di un incidente stradale in cui il danneggiato aveva riportato delle fratture a carico di una caviglia. Il giudizio di primo grado si concludeva, dopo l’esecuzione di CTU medico-legale, negando la possibilità del risarcimento per incompatibilità tra le lesioni riportate e la ricostruzione dell’incidente.
La Corte d’Appello, invece, riconosceva la responsabilità dell’assicurazione del soggetto che aveva provocato il sinistro. Concedeva quindi un risarcimento pari a 192000 € basato, essenzialmente, su una significativa limitazione funzionale della caviglia di destra valutata nella misura del 10% come danno biologico.
Inoltre, nella quota di danno, riconosceva una incidenza del 50% sulla capacità lavorativa di autotrasportatore. Avvalendosi delle tabelle del Tribunale di Milano, la Corte territoriale applicava una personalizzazione del 15% anche per l’impossibilità di praticare attività sportive. In merito al danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa specifica, liquidava il danno prendendo a base di calcolo l’ultima retribuzione mensile percepita dalla vittima prima dell’incidente. L’aumentava, equitativamente a 1000 € al mese per i prevedibili incrementi futuri determinando quindi un reddito annuo di 12000 €, capitalizzato tenuto conto dell’età del danneggiato al momento del sinistro, decurtandolo del 10 % per lo scarto tra la vita fisica e vita lavorativa: liquidava quindi un danno patrimoniale complessivo di € 151390,62.
ll ricorso in Cassazione
Qui di seguito i motivi di ricorso alla Suprema Corte eseguiti da entrambe le parti di nostro interesse.
La Compagnia assicurativa, innanzitutto, contestava la scarsità di motivazioni della Corte d’Appello in relazione al fatto che una invalidità biologica del 10% potesse dar luogo ad una riduzione della capacità lavorativa pari al 50%.
Il ricorso del danneggiato era basato sul fatto che erroneamente la Corte d’Appello, dopo aver posto a base del calcolo la sua retribuzione mensile al momento dei fatti, arrotondata in aumento, avesse riconosciuto un danno patrimoniale pari al reddito moltiplicato per il coefficiente di capitalizzazione e per la perdita della capacità lavorativa specifica in percentuale, sottratto lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa. Riteneva che, al contrario, avrebbe piuttosto dovuto riconoscergli l’intero importo, senza operare l’abbattimento pari alla percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica.
Sosteneva, inoltre, che, se il danneggiato dimostra di aver perso a causa di un sinistro un preesistente rapporto di lavoro, il danno patrimoniale da lucro cessante va liquidato tenendo conto dell’intero importo delle retribuzioni che egli avrebbe percepito e che ha perso e non in base alla sola percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica, a meno che lo stesso responsabile non alleghi e dimostri che il danneggiato abbia reperito una nuova occupazione retribuita ovvero che avrebbe potuto farlo e non lo ha fatto per propria colpa: solo in questi casi la quantificazione del danno patrimoniale potrà essere legittimamente effettuata nella misura della differenza.
Di conseguenza, il danno patrimoniale subito gli doveva essere liquidato in misura pari all’intera sua perdita reddituale conseguente alla perdita del reddito da rapporto di lavoro preesistente, non avendone conseguito nessun altro in sostituzione, perché quello era l’intero ed effettivo pregiudizio subito in concreto, essendo il rapporto lavorativo cessato a causa del suo infortunio, che non gli avrebbe più consentito lo svolgimento di un lavoro al quale era avviato, quello di autotrasportatore, che presuppone una completa padronanza fisica.
Le decisioni della Suprema Corte
I motivi di infondatezza del ricorso della Compagnia Assicurativa
Gli Ermellini ritenevano prive di consistenza le deduzioni proposte quale ricorso da parte della Compagnia assicurativa.
Fondandosi su precedenti (Cass. n. 19537 del 2007) la Suprema Corte affermava che non esiste una automatica correlazione diretta tra percentuale di invalidità e percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica, in quanto il grado di invalidità personale determinato dai postumi permanenti di una lesione all’integrità psico-fisica non si riflette automaticamente sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica e, quindi, di guadagno, spettando al giudice del merito valutarne ni concreto l’incidenza.
I motivi di infondatezza del ricorso del danneggiato
La Cassazione riteneva ugualmente infondato il ricorso proposto dal danneggiato ritenendo del tutto corrette le deduzioni operate in merito dalla Corte d’Appello.
Infatti, secondo i Supremi Giudici, non presentava caratteristiche che lo rendevano difforme né dalla legge né da una integrale riparazione per equivalente del danno patrimoniale effettivamente subito, il criterio di quantificazione del danno patrimoniale seguito dalla corte d’appello, che ha adottato come base di calcolo il reddito effettivamente percepito dalla vittima al momento dell’incidente, su base annua, fondato sulla retribuzione mensile, arrotondata in eccesso tenendo conto di incrementi futuri, moltiplicandolo per il coefficiente di capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali corrispondente all’età della vittima al momento del sinistro e per la percentuale di riduzione della capacità lavorativa specifica nella misura che verrà accertata, e decurtando dall’importo così conseguito lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa.
Aggiungeva, in più la Suprema Corte, che Il danno patrimoniale non può considerarsi pari, per l’intera vita, alle entrate patrimoniali cessate per un lavoro che non sarà più tenuto a svolgere, ma va considerata, ai fini di una corretta quantificazione per equivalente della perdita patrimoniale effettivamente subita, la perdurante, sebbene ridotta, capacità del danneggiato di procurarsi e mantenere, seppur con accresciute difficoltà, il cui peso deve essere adeguatamente considerato, un’altra attività lavorativa retribuita.
Per cui, legittimamente, la quantificazione del danno patrimoniale non può essere pari alle intere entrate percipiende che il danneggiato ha perso per la cessazione dell’impiego conseguente all’incidente, ma quella somma deve essere abbattuta in considerazione della sua mantenuta, sebbene ridotta, possibilità di reperire un nuovo impiego. Solo se la capacità lavorativa specifica della persona fosse ridotta a zero, li danno patrimoniale subito sarebbe da parametrare all’intero reddito percepito al momento del sinistro, e provato nella sua entità, perché è esclusa ogni possibilitàdi recuperare una nuova posizione lavorativa.
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