Abstract
Siamo portati a ritenere che l’identificazione di DNA estraneo (non-self DNA) sul corpo di una vittima di omicidio sia attribuibile con alta probabilità all’ipotetico perpetratore del crimine, specialmente qualora il materiale genetico sia repertato in aree corporee “sensibili”, quali il collo. La realtà è tuttavia più complicata e il DNA potrebbe non rappresentare la “sfera di cristallo”.
Un recentissimo lavoro pubblicato sul Forensic Science International: Genetics (Fantinato C et al. Non-self DNA on the neck: a 24 hours time-course study. Forensic Science International: Genetics 57 (2022) 102661) cerca di gettare luce sull’argomento attraverso un interessante esperimento, smontando la tentazione di attribuire al dato genetico valore di certezza nella costruzione dell’impianto accusatorio.
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Non-self DNA: strumento di prova…
Nei casi di violenza fisica durante le indagini è talvolta esperita la raccolta di materiale biologico da aree cutanee della vittima che potenzialmente potrebbero essere entrate in contatto con l’aggressore.
Infatti, è nota la possibilità che si verifichi il trasferimento di DNA e quindi la possibilità del suo rinvenimento sulla cute della vittima.
Alcuni Autori si sono interessati a questo fenomeno in passato.
Per esempio Wiegand and Kleiber (P. Wiegand, M. Kleiber, DNA typing of epithelial cells after strangulation, Int. J. Leg. Med. 110 (4) (1997) 181–183) e Rutty (G.N. Rutty, An investigation into the transference and survivability of human DNA following simulated manual strangulation with consideration of the problem of third party contamination, Int. J. Leg. Med. 116 (3) (2002) 170–173) hanno studiato come il profilo genetico può in alcuni casi essere un utile strumento ai fini dell’identificazione del soggetto che mette in atto uno strozzamento.
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… o reperto occasionale?
Tuttavia, altri Autori hanno dimostrato il fatto che non-self DNA possa essere normalmente presente sulla cute del collo di ciascuno di noi (tra gli altri, Graham EA et al. Investigation into “normal” background DNA on adult necks: implications for DNA profiling of manual strangulation victims, J. Forensic Sci. 53 (5) (2008) 1074–1082).
L’ipotesi è infatti che il DNA possa normalmente essere depositato sugli oggetti e sulla cute di altre persone tramite il contatto durante attività della vita quotidiana in quantità che dipendono dalle caratteristiche individuali (shedder status) sia del soggetto ricevente che di quello proprietario del materiale genetico, quantità che comunque sarebbero sufficienti alla sua identificazione con i metodi forensi standard.
Anche la convivenza con altre persone e il grado di relazione con queste sono fattori che influenzano la quantità di DNA estraneo che è possibile identificare sulla cute di ogni soggetto, essendo maggiore la quota di materiale genetico interscambiato tra soggetti che vivono nella stessa casa e che hanno maggiori contatti fisici.
È facile intuire che in molti casi giudiziari la vittima convive o ha una relazione con il perpetratore, perciò attribuire il trasferimento di DNA precisamente al momento in cui è stato commesso il crimine non è sempre possibile.
Sul punto, la Comunità Scientifica mondiale da tempo si interroga con una fervente discussione circa le modalità con cui sia più corretto comunicare ai “non addetti ai lavori” il risultato delle analisi genetiche nei casi giudiziari, al fine di non fornire false certezze alle giurie e dare il giusto peso all’identificazione dei profili genetici sulla scena del crimine (se ti interessa approfondire, tra i tanti articoli ti suggeriamo – Gill P et al. DNA commission of the International society for forensic genetics: Assessing the value of forensic biological evidence – Guidelines highlighting the importance of propositions. Part II: Evaluation of biological traces considering activity level propositions. Forensic Science International: Genetics 44 (2020) 102186).
Attesa l’alta rilevanza dell’argomento, lo studio di Fantinato e colleghi si propone di incrementare la comprensione circa la persistenza e l’accumulo di non-self DNA sulla cute del collo nel corso di 24 ore.
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Il disegno dello Studio
20 adulti volontari (13 donne e 7 uomini) sono stati reclutati ed istruiti circa il metodo per il corretto frizionamento di tamponi su specifiche aree cutanee del collo.
Ai partecipanti è stato chiesto di fare la doccia al mattino e di non detergere l’area di campionamento finché tutti i campioni erano stati raccolti.
Il campionamento è stato ripetuto in 2 giorni differenti, uno feriale ed uno festivo. Durante ciascuna di queste giornate i partecipanti hanno eseguito la raccolta immediatamente dopo la doccia (T0), 7-8 ore dopo (T1) e 24 ore dopo la doccia (T2). Nel giorno feriale, il campione raccolto a T1 è stato repertato sul luogo di lavoro.
I tamponi a T0, T1 e T2 sono stati ottenuti dal frizionamento di tre diverse aree del collo, rispettivamente superficie frontale, laterale destra e sinistra e posteriore, per evitare che multiple raccolte nella stessa zona potessero compromettere la rilevabilità del DNA.
Le zone cutanee utilizzate per la raccolta del materiale genetico (da Fantinato C et al. 2022)
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Sono stati raccolti anche campioni di DNA dei partecipanti e dei loro conviventi ed è stato chiesto ai partecipanti di compilare un questionario circa le abitudini abitative e le attività svolte nelle 24 ore dello studio.
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I risultati
La quantità di DNA raccolto ha mostrato una una variabilità sia inter- che intra-personale. In un tampone non è stato individuato alcun profilo genetico. Tale variabilità può essere correlata al shedder status dei singoli individui, sia riceventi che donatori, ma anche alla differente capacità di raccogliere un campione adeguato sulla base della forza del frizionamento cutaneo con i tamponi.
Il non-self DNA
Più della metà dei campioni analizzati (62%) contenevano una combinazione di due (85%) o tre (15%) profili genetici. Solo nel 38% dei casi era rinvenuto un singolo profilo genetico, appartenente al partecipante. Ciò conferma che DNA estraneo è normalmente presente sulla cute del collo in quantità rilevabili dai comuni metodi di laboratorio. Il numero di profili misti aumentava nel tempo da T0 a T2, mostrando come il non-self DNA si accumuli nell’arco della giornata.
DNA “di casa”
La maggior parte del DNA estraneo era attribuibile ai partner/figli e solo una piccola quota derivava da fonti “anonime”. Infatti, il contributo del DNA del partecipante diminuiva nel corso del tempo, mentre cresceva quello del profilo genetico di partner/figli, con un picco di quest’ultimo a T2. Un piccola quota di campioni raccolti a T0 (subito dopo la doccia) conteneva la combinazione di profili del partecipante e di partner/figli (probabilmente per l’utilizzo di biancheria da bagno in comune).
È opportuno tuttavia specificare che la sola coabitazione non è sufficiente per spiegare il rinvenimento di DNA estraneo. Infatti, sebbene i partecipanti che convivevano con il proprio partner e/o con i figli abbiano mostrato livelli maggiori di non-self DNA rispetto ai partecipanti che vivevano da soli, è anche vero che i tamponi di coloro che pure convivevano con altre persone, a cui però non erano legati da vincoli di affetto (semplici “coinquilini”), contenevano il solo profilo del partecipante.
Oltre che per trasferimento diretto quindi il rinvenimento di DNA del partner o dei figli potrebbe essere avvenuto per condivisione degli strumenti di lavaggio, asciugatura e deposito comuni per i vestiti e la biancheria.
Il 62% dei tamponi eseguiti nei giorni festivi conteneva la combinazione di due profili genetici, con il partner quale contributore minore in tutti i casi, eccetto 2 nei quali il profilo genetico del partner rappresentava il contributo maggiore. In questi ultimi casi, i soggetti avevano avuto un contatto fisico con il partner prima della raccolta del tampone. Ciò indica che l’identificazione di grandi quantità di DNA di un soggetto sul collo di un altro potrebbe suggerire che sia avvenuto un recente contatto fisico diretto.
Le fonti anonime di DNA
I contributori “anonimi” (non conviventi) erano identificati nel 9% dei tamponi e solo a T1 e T2, con un maggiore frequenza riscontrata a T1, sia nei giorni feriali che festivi. Tutti i partecipanti su cui è stato rinvenuto DNA proveniente da fonti sconosciute hanno dichiarato di aver passato del tempo in luoghi pubblici (es. sede di lavoro, palestra, negozi), di aver usato vestiti non lavati di recente, di aver utilizzato i mezzi pubblici o di aver frequentato degli amici.
Indipendentemente dal giorno della raccolta e dalle attività svolte, il numero di alleli anonimi raccolti è stato molto esiguo (≤12). Questo depone per il fatto che il rilievo, al contrario, di grandi quantità di materiale genetico o di un intero genoma possa necessitare di un contatto fisico diretto.
I limiti dello Studio
Bisogna tenere conto che i risultati di questo Studio potrebbero essere stati influenzati dalle misure di distanziamento sociale e di protezione (mascherine) adottate per il contenimento della pandemia da SARS-CoV-2, che potrebbero aver ridotto la dispersione di aerosol ed il contatto interpersonale.
Inoltre, la scelta di un’area cutanea sostanzialmente “protetta” dai capelli e dagli indumenti, quale il collo, potrebbe aver concesso un limitato trasferimento di DNA estraneo attraverso meccanismi “indiretti”, che non comportino il contatto fisico tra individui.
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CONCLUSIONI
Il rinvenimento di DNA estraneo sul collo di una vittima deve essere valutato con attenzione poiché è documentato che questo può essere normalmente presente sulla superficie cutanea.
Devono pertanto essere approfondite le abitudini abitative e le attività quotidiane del soggetto, tenendo in considerazione il fatto che il rilievo di un profilo genetico completo, o comunque grande quantità di DNA, potrebbe suggerire più probabilmente la ricorrenza di un recente contatto fisico diretto tra due individui.
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