Abstract
Il collega e nostro Socio Simone Callioni di Siena, che ringraziamo per il Suo contributo, ci invia questo suo scritto relativo ad un problema probabilmente dimenticato relativo alle differenti posizioni, in contrasto tra loro, che DPCM e Circolari Ministeriali emessi in epoca “pandemica”, tengono riguardo alle posizioni riguardanti soggetti positivi Covid19 a seconda che questi debbano rientrare al lavoro o “in comunità” con tutte le problematiche che simili posizioni possono determinare in ambito medico-legale. Uno spunto di riflessione importante che merita di essere approfondito.
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La “seconda ondata” della pandemia Covid-19 ha portato più incertezze e problemi della “prima”. Indipendentemente da come la si voglia vedere ci ha colti impreparati più di quanto tutti noi potessimo immaginare.
In relazione ai concetti di “guarigione clinica” e “rientro in comunità” e “rientro al lavoro” voglio esprimerei miei dubbi e le mie interpretazioni da giovane medico-legale arruolato per aiutare a contrastare l’epidemia anche se solo nell’ambito delle mie specifiche competenze specialistiche.
Inizio facendo una premessa: non ho idea di come la problematica che desidero portare all’attenzione sia affrontata su tutto il territorio nazionale. Forse i miei dubbi sono fuori luogo e magari la maggior parte dei lettori avranno, sul punto, una visione del tutto cristallina.
Vi presento, dunque, quanto, allo stato, mi angustia e sul quale mi sembra non vi sia abbastanza chiarezza.
I cittadini che, risultando ancora positivi a SarsCov2 all’ultimo tampone nasofaringeo molecolare nonostante siano sempre stati asintomatici (o che sono asintomatici da più di 7 giorni e abbiano trascorso 21 giorni in isolamento dalla comparsa dei primi sintomi), finiscono, di fatto, in un limbo normativo. I dipartimenti di Igiene delle ASL (ATS, USL, ect.), una volta imposto l’isolamento sanitario, rilasciano, per revocarlo, dei certificati di “guarigione clinica” (in altri casi di “termine dell’isolamento sanitario” o degli “attestati di rientro in comunità”, ect.) seguendo le indicazioni contenute nella circolare del Ministero della Salute del 12/10/2020 (DOWNLOAD DELLA CIRCOLARE).
La stessa circolare recita: […] In considerazione dell’evoluzione della situazione epidemiologica, delle nuove evidenze scientifiche, delle indicazioni provenienti da alcuni organismi internazionali (OMS ed ECDC) e del parere formulato dal Comitato Tecnico Scientifico in data 11 ottobre 2020, si è ritenuta una nuova valutazione relativa a quanto in oggetto precisato: […] Casi positivi a lungo termine: le persone che, pur non presentando più sintomi, continuano a risultare positive al test molecolare per SARS-CoV-2, in caso di assenza di sintomatologia (fatta eccezione per ageusia/disgeusia e anosmia che possono perdurare per diverso tempo dopo la guarigione) da almeno una settimana, potranno interrompere l’isolamento dopo 21 giorni dalla comparsa dei sintomi. Questo criterio potrà essere modulato dalle autorità sanitarie d’intesa con esperti clinici e microbiologi/virologi, tenendo conto dello stato immunitario delle persone interessate (nei pazienti immunodepressi il periodo di contagiosità può essere prolungato).
Qui di seguito le Linee guida nazionali, europee ed internazionali:
Verosimilmente queste linee guida hanno guidato la redazione di tale circolare, sono facilmente reperibili sui siti internet delle varie Istituzioni governative che si sono espresse sul tema.
In Italia il concetto di “rientro in comunità” (aka “termine dell’isolamento sanitario/domiciliare”, “guarigione clinica”) non sembra assolutamente essere sovrapponibile a quello di “rientro al lavoro”. Non mi dilungherò su critiche ed esegesi strutturate ma semplicemente, nel Bel Paese, andare a fare la spesa al supermercato sembra comportare un diverso rischio, per sé e per gli altri, rispetto ad andare in ufficio o in ospedale per lavorare.
Tale affermazione deriva dal fatto che, nonostante il termine dell’isolamento domiciliare certificato dal servizio di Igiene territorialmente competente (secondo i crismi della circolare del Ministero della salute 12/10/2020), nei vari DPCM che via via si sono succeduti (compreso l’ultimo del 03/12/2020), è presente, nell’allegato 12 (che sembra essere stato redatto il giorno 24 aprile 2020), un paragrafo che recita:
“2- MODALITÀ DI INGRESSO IN AZIENDA […] L’ ingresso in azienda di lavoratori già risultati positivi all’infezione da COVID 19 dovrà essere preceduto da una preventiva comunicazione avente ad oggetto la certificazione medica da cui risulti la “avvenuta negativizzazione” del tampone secondo le modalità previste e rilasciata dal dipartimento di prevenzione territoriale di competenza.”.
(Si veda Allegato 12 del DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 3 dicembre 2020. Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, recante: «Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19» e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2020, n. 74, recante: «Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19», nonché del decreto-legge 2 dicembre 2020, n. 158, recante: «Disposizioni urgenti per fronteggiare i rischi sanitari connessi alla diffusione del virus COVID-19». (20A06767) (GU Serie Generale n.301 del 03-12-2020).
Spesso ho sentito colleghi discutere sulla “gerarchia delle fonti del Diritto” sostenendo che i DPCM superano, dal punto di vista ordinativo, le circolari del Ministero. Non siamo certo noi medici che possiamo decidere. Indipendentemente dalle fonti del diritto, ignorare totalmente la scienza medica e le pubblicazioni scientifiche più autorevoli e recenti non mi sembra affatto un buon motivo per disquisizioni giuridiche dilettantesche e per produrre protocolli o interpretazioni della Legge “home made”.
Per concludere, dunque, rimangono aperti numerosi quesiti che così si possono elencare:
- Questo allegato 12 è ancora attuale o è un refuso di aprile?
- I tamponi (e quali tamponi, molecolari o vanno bene anche quelli antigenici rapidi?) ai lavoratori asintomatici che hanno terminato l’isolamento domiciliare, visto che non sono più in “carico” alle ASL (e per loro sono, di fatto, “guariti”) chi li deve fare? I costi devono essere a carico del SSN o del lavoratore?
- Il concetto di rientro in comunità è davvero totalmente diverso da quello di rientro al lavoro (o “in azienda”)? Se sì allora reputiamo che i protocolli, i DPI e il lavoro dell’RSPP, del Medico Competente aziendale e del DL siano totalmente insufficienti e che, invece, i protocolli dei supermercati siano infallibili e a prova di SarsCov2?
- È sempre il dipartimento di prevenzione territoriale di competenza che si deve far carico dell’esecuzione dei tamponi nei casi dei lavoratori “positivi a lungo termine” o basta un semplice un tampone negativo per ammetterne il rientro al lavoro?
- Siamo sicuri di non voler seguire le indicazioni, sul rientro al lavoro, dei più importanti organi sovranazionali che si occupano, da sempre, di malattie infettive diffusibili?
- Chi deve tutelare l’assenza dal lavoro di queste persone e in che modalità tale assenza deve essere giustificata/inquadrata?
Ci pare che queste domande che il Collega Simone Callioni che ringraziamo per il contributo non possano restare senza risposta.
Quindi attendiamo pareri e proposte.
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