Abstract
Il problema della contagiosità del cadavere positivo per SARS-CoV-2 è stato affrontato ormai da numerosi lavori scientifici a cui la comunità medico-legale italiana ha contribuito in modo notevole. Vi diamo una rapida informativa sullo stato dell’arte.
. . . .
Dall’inizio della pandemia da SARS-CoV-2 il nostro rapporto con il corpo, con il corpo degli altri, con le distanze e con il contatto fisico interpersonale è cambiato. Inevitabilmente il cambiamento ha pervaso anche la sala settoria, ove fino al febbraio 2020 il Medico Legale era abituato a manipolare il corpo del defunto senza troppe preoccupazioni.
Dopo un iniziale arresto dell’attività settoria dettato dal Ministero della Salute, all’esito dei primi Studi circa la persistenza dell’RNA del SARS-CoV-2 nel cadavere sono giunte indicazioni nazionali ed internazionali meno stringenti.
Allo stato dell’arte, due rimangono i quesiti cruciali: quale sia il periodo post-mortale oltre il quale il tampone per la ricerca del virus non risulti più essere affidabile e quale sia il reale rischio infettivo/diffusivo dei cadaveri risultati positivi ai test di ricerca per l’RNA virale per gli operatori che li maneggiano.
La rilevabilità dell’RNA di SARS-CoV-2 nel tampone post-mortem
Senza avere la pretesa di condurre una trattazione esaustiva in questa sede, si ricordano alcuni degli Studi in merito, che possono essere citati quali fonti bibliografiche nell’evenienza (ahimè non remota) in cui l’utilità del tampone in fase di valutazione del rischio infettivo prodromica all’autopsia sia messa in dubbio da chi debba assumersi l’onere economico del test, sia in ambito ospedaliero che giudiziario. Infatti, sebbene le raccomandazioni diffuse dalla COMLAS e dalla SIAPEC nella prima fase pandemica (marzo 2020) suggerissero l’esecuzione del tampone post-mortem entro 2 ore dal decesso, l’accumulo successivo di evidenze ha portato a prospettare che il test molecolare diagnostico potesse essere dotato di una certa affidabilità anche dopo periodi post-mortali più lunghi.
- A giugno 2020 il Dell’Aquila e colleghi pubblicavano i risultati di uno studio su 12 casi autoptici di pazienti deceduti con diagnosi clinica e/o laboratoristica di polmonite COVID-relata. Il loro protocollo prevedeva un tampone rinofaringeo ed uno tracheale e 2 tamponi sul parenchima polmonare (oltre ad un tampone polmonare per la ricerca di altri virus che potessero provocare un quadro clinico di polmonite interstiziale). Nove su 12 casi risultarono avere almeno un tampone post-mortem positivo, indipendentemente dal PMI (Post-Mortem Interval), che era compreso tra 12 e 120 ore.
- Uno studio preliminare – pubblicato sul fascicolo 2/2020 della Rivista Italiana di Medicina Legale e svolto in Valle d’Aosta – ha valutato un campione di 35 cadaveri, di cui 7 con positività al tampone ante-mortem, 14 con tampone negativo effettuato almeno 14 giorni prima del decesso ed i restanti mai testati in vita. Su tutti era eseguito un tampone post-mortem rino- ed oro-faringeo in un PMI compreso tra 4 e 800 ore. Tutti i soggetti del gruppo di positivi ante-mortem mantenevano la positività al tampone post-mortem (in un caso eseguito 35 giorni dopo il decesso); inoltre, era possibile effettuare 2 diagnosi ex-novo, post-mortali, nel gruppo dei mai-testati in vita.
- All’inizio del 2021 erano pubblicati i dati di uno studio (Heinrich e coll. di Amburgo) nel quale 11 soggetti deceduti per cause COVID-relate erano testati ripetutamente con tamponi rino-faringei dal momento dell’ammissione alla morgue (mediamente 5,7 ore dopo il decesso) per 9 volte nell’arco di 7 giorni con riscontro di costante rilevabilità di RNA virale, indipendentemente dal PMI.
- Nel giugno 2021 una pubblicazione di Musso e coll. ha confermato la persistenza dell’RNA di SARS-CoV-2 per lunghissimo tempo, rilevandolo con tecnica RT-qPCR e ddPCR sul tessuto polmonare di tutti i 16 soggetti inclusi nello studio, deceduti per COVID ed esumati circa 2 mesi dopo il decesso.
Le evidenze sperimentali hanno quindi documentato che l’RNA di SARS-CoV-2 è ancora rilevabile nel cadavere ben oltre le prime ore dopo il decesso. Tutt’altra cosa è tuttavia stabilire se tale riscontro si associ ad una reale potenzialità infettivo-diffusiva oppure se rappresenti un mero simulacro del virus.
L’attività virale nel cadavere
Sul punto non esistono allo stato attuale molti dati di Letteratura, attesa anche la difficoltà tecnica di effettuare colture cellulari in laboratori dotati di adeguati livelli di biosicurezza. Recentemente il gruppo del Prof. Pomara ha pubblicato i risultati relativi ad un campione di 16 deceduti, testati positivi per COVID in epoca ante-mortem e risultati nuovamente tutti positivi per la ricerca di RNA virale mediante RT-PCR eseguita su tampone polmonare intra-autoptico.
Il campione era stato suddiviso in un gruppo con “breve PMI” (8 soggetti), con autopsia svolta a 12-72 ore dal decesso, e un gruppo con “lungo PMI” (8 soggetti), con autopsia eseguita tra 24 e 78 giorni dopo il decesso. Per ognuno era raccolto un frammento di tessuto polmonare, che era posto in coltura cellulare. Il risultato di un solo campione (PMI 12 ore) con dimostrazione di vitalità virale (effetto patogenetico) suggerirebbe un basso rischio diffusivo del cadavere, che andrebbe affievolendosi con il prolungamento del PMI.
Tuttavia la realtà potrebbe essere più complessa, dovendosi considerare anche altre variabili oltre al PMI. Un altro studio tedesco (Plenzig S e coll. di Francoforte) pubblicato nel marzo 2021 ha analizzato 4 casi di soggetti deceduti con diagnosi ante-mortem di COVID. Durante l’autopsia (PMI di 1, 4, 9 e 17 giorni) sono stati effettuati tamponi e prelievi dal tratto respiratorio: in 2 casi sia la RT-qPCR sul tampone sia la coltura cellulare sui prelievi sono risultate positive, indipendentemente dal PMI (4 e 17 giorni). Era invece possibile trovare una correlazione tra i 2 casi infettivi ed una breve durata della malattia da SARS-CoV-2 in epoca ante-mortem (2 ed 11 giorni, rispetto ai >19 giorni dei due casi non infettivi ai prelievi post-mortali). È rimarchevole notare che la diffusività del virus era ancora presente nel cadavere più longevo (PMI = 17 giorni), nonostante fossero già visibili segni di putrefazione.
Pertanto, gli Studi pubblicati hanno concordemente confermato l’utilità del tampone molecolare effettuato sulle vie aeree del cadavere anche dopo lunghi PMI, consentendo nella pratica quotidiana al professionista Medico Legale che deve approcciarsi ad esperire l’esame autoptico di tutelarsi verificando la negatività del tampone in una fase prodromica all’autopsia ed indirizzando invece i cadaveri con tampone post-mortem risultato positivo, qualora sia necessario, alle sale autoptiche dotate di livello di Biosicurezza 3, come da raccomandazioni della letteratura di settore (vedi ad esempio l’articolo di Bay e coll.).
D’altro canto, in attesa di una maggiore solidità dei dati pubblicati circa la residua attività patogena post-mortem del virus, è opportuno cautelativamente ritenere che il personale che svolge attività necrosettorie sia esposto ad una certa quota, allo stato attuale non quantificabile, di rischio infettivo legato ai corpi testati positivi per COVID, con chiara indicazione ad implementare le misure di biosicurezza volte alla riduzione della possibilità di contagio.
VUOI APPROFONDIRE QUESTO ARGOMENTO?
Vedi anche: “Prevenzione primaria in sala settoria: requisiti inalienabili”, intervento del Dott. M. Moretti
Ascolta anche i podcast: 1° parte e 2° parte