Sono circa le 11:00 del 7 giugno quando il Presidente Giacomo Travaglino prende la parola al 46° Congresso della SIMLA e con magistrale spirito partenopeo da lui mai sottaciuto, inizia il proprio intervento attraverso il quale chiarisce come si è giunti, nel tempo, a delineare la regola civilistica secondo cui, ad oggi con la legge 24/2017, sussiste la responsabilità contrattuale delle strutture sanitarie e quella, invece, extracontrattuale dell’operatore sanitario inquadrato nel settore pubblico.
Si parte da lontano
Il suo intervento è partito da lontano, dallo scorso millennio, attraverso un excursus storico dei principi dettati sia dalla Corte Costituzionale che dalla Corte di Cassazione, così specificando come non esista (ispe dixit) una regola causale, ma dei principi causali che sono collocati in una epoca storica che ritiene quei principi adatti e, pertanto, li adotta in quel preciso frangente storico.
In questo excursus, vogliamo riportare “a piccole puntate” le sentenze citate dal Presidente Travagliano così fissando la memoria proprio su quei principi.
La sentenza 166/193 della Corte Costituzionale
Parte da lontano, dicevamo, il ragionamento del Presidente Travaglino, ovvero dalla sentenza della Corte Costituzione n. 166 del 1973 (sentenza del 22.11.1973, GU n. 314 del 05.12.1973), subito evidenziando il principio applicativo e interpretativo dell’art. 2236 cc, la speciale difficoltà nell’esecuzione di una prestazione contrattuale, valido ancora oggi.
La massima n. 6903 della sentenza della predetta Corte Costituzionale recita: “Non è fondata in relazione all’art 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 589 e 42 del cod. pen. nella parte in cui consentono che nella valutazione della colpa professionale il giudice attribuisca rilevanza penale soltanto a gradi di colpa di tipo particolare. Infatti, il differente trattamento giuridico riservato al professionista la cui prestazione d’opera implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, e ad ogni altro agente che non si trovi nella stessa situazione, non può dirsi collegato puramente e semplicemente a condizioni (del soggetto) personali o sociali. La deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha in sè una sua adeguata ragione di essere e poi risulta ben contenuta, in quanto è operante, ed in modo restrittivo, in tema di perizia e questa presenta contenuto e limiti circoscritti.”.
La vicenda esaminata dalla Corte Costituzionale
Il ricorso alla Corte nasceva in seguito ad una vicenda medica che vedeva coinvolto un odontotecnico, diplomato in protesi dentaria, e un medico chirurgo che, in conseguenza delle loro prestazioni sanitarie, causavano la morte di una paziente. Il tribunale penale di primo grado in data 12.07.1971 sollevava la questione di legittimità degli artt. 589 e 42 del codice penale in riferimento all’art. 3 della Costituzione. Le due norme penali, a detta del giudice di primo grado, “…consentono che nella valutazione della colpa professionale il giudice attribuisca rilevanza penale soltanto a gradi di colpa di tipo particolare”.
Il possibile contrasto costituzionale riguardante il principio di eguaglianza era prospettato dalla difesa di uno dei due imputati e sorgeva dal combinato disposto dei richiamati articoli del codice penale in relazione al, noi tutti noto, art. 2236 c.c. che recita: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”. La problematica era quindi particolarmente viva già prima dell’istituzione del SSN con la legge n. 833 del 1978.
L’elasticità delle norme
A fronte della sollevata questione, la Corte Costituzionale specificava che le norme richiamate presentano una struttura elastica, suscettibili di contenuti diversi a secondo che il soggetto nei cui confronti devono applicarsi sia o meno un professionista in possesso di titolo accademico.
Ponendo una lieve specifica in riferimento all’art. 42 c.p. comprendendo “meglio 43”, la Corte sottolineava come l’art. 2236 c.c., in relazione anche all’art 589 c.p., per l’esercente una professione intellettuale rappresenta una scelta normativa dettata, da un lato, a non mortificare l’iniziativa del professionista con timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e, dall’altro, a non indulgere verso decisioni non ponderate o inerzie riprovevoli del professionista stesso. Già traspare come la Corte inizi ad evidenziare il fatto che il contenuto dell’art. 2236 c.c. non possa riferirsi, né applicarsi, all’imprudenza e alla negligenza.
La colpa grave
La Corte specificava come nelle ipotesi di responsabilità penale possa rilevare solo la colpa grave, ossia quella derivante da errore inescusabile, dalla ignoranza di principi e contenuti elementari attinenti ad una determinata attività professionale. Tuttavia, la Corte circoscriveva l’ambito di azione di “siffatta esenzione o limitazione di responsabilità” alla perizia, specificando come “l’indulgenza del giudizio del magistrato è direttamente proporzionata alle difficoltà del compito”, ma non la ammetteva, al contrario, per la prudenza e la diligenza, condotte per le quali non vi è spazio per una simmetrica indulgenza, ma al contrario il giudizio non può che essere improntato a criteri di normale severità. Aggiungiamo che tale severità è da parametrarsi al qualificato prestatore d’opera (2° comma art. 1176 cc).
La Corte Costituzionale, quindi, riconosce che la deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa che ha, certamente, una sua adeguata ragione di essere, ma, che è ben contenuta in quanto opera in modo restrittivo, solo in tema di imperizia ed possiede limiti circoscritti.
La delimitazione della colpa grave da parte della Cassazione (2436/1975)
Se la colpa grave, ex art. 2236 c.c., fu così delimitata nel suo ambito applicativo e contenutistico, principio ancora ad oggi valido e richiamato dal comma 1 dell’art. 6 della legge n. 24/2017 (o dall’art. 590-sexies c.p.), a gettare luce ulteriore su tale principio intervenne due anni dopo la III Sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 2436 del 16 giugno 1975.
Questa ha specificato come a fronte di un caso comune ed ordinario, ossia tipico perché conosciuto dalla scienza e dall’esperienza medica e quindi con regole precise ed indiscusse, il medico risponde anche per colpa lieve se tali regole non sono state osservate per inadeguatezza od incompletezza della preparazione professionale comune e media o per omissione della diligenza media. In tale sentenza si specifica, infatti, che il medico risponde soltanto per colpa grave quando il caso concreto sia straordinario od eccezionale, così da essere non adeguatamente studiato dalla scienza medica o sperimentato nella pratica oppure quando nella scienza medica siano proposti e dibattuti diversi ed incomprensibili tra loro sistemi diagnostico-terapeutici e di tecnica chirurgica, tra i quali il medico può operare la sua scelta.
Ebbene, tali principi correlati alla speciale difficoltà e alla applicazione dell’art. 2236 cc, per quanto partiti da lontano, sono tuttora vigenti.