Un contributo del Prof. Antonio Oliva, Ordinario di Medicina legale presso l’Università Cattolica di Roma.

La “centralità” della medicina legale
Comincio questo commento alla Sentenza 12854/2024 del TAR del Lazio (vedi anche il nostro precedente articolo), esprimendo un sentimento comune tra gli specialisti in Medicina Legale, ossia che la Disciplina che abbiamo posto a culmine di (almeno) dieci anni di formazione accademica individuale è e deve restare il centro insostituibile di connessione tra le discipline biomediche e l’ambito giuridico-assicurativo, come consacrato ex multis dall’art. 15 della L. 24/2017 e dall’art. 16 del Decreto 15 dicembre 2023, n. 232.
Questi due riferimenti, infatti, pongono il solo medico legale come figura sanitaria specialistica irrinunciabile, rispettivamente, nella valutazione giudiziaria dei casi di responsabilità sanitaria e nella funzione delle strutture sanitarie di governo del rischio e valutazione dei sinistri.
I pericoli paventati
Parlando scevri da riferimenti specifici, il pericolo che però molti specialisti temono è quello che taluni vogliano direttamente o indirettamente fare della Disciplina una Cattedrale di Macao, che mantiene la sua storica e solida facciata pur ormai priva di struttura propria e quindi di funzione. Rischio, invero, ancora lontano, per merito delle Istituzioni universitarie (e non), della Società e dei Gruppi, degli Enti, nonché dei molti professionisti che ancora rendono onore al patrimonio culturale e professionale che abbiamo ereditato dai Maestri che ci hanno preceduto.
La sentenza del TAR del Lazio
Bisogna però restare vigili, e pertanto mi si consenta di esprimere alcune brevissime considerazioni sulla predetta Sentenza.
Essa è nata dal ricorso della Federazione Nazionale Ordini dei Medici Chirurgi e degli Odontoiatri avverso quanto previsto dal Decreto del Ministero della Giustizia n. 109 del 4 agosto 2023 sul tema di tre settori di specializzazione previsti per gli psicologi nell’alveo dell’albo dei CTU. Le specialità sono “capacità di intendere e volere (penale e civile)/ capacità di stare in atti”, “previdenza adulti (indennità di accompagnamento), indennità di frequenza, Legge 104, amministrazione di sostegno, ecc)” e “valutazione del danno”. Il Tribunale, sinteticamente, ha osservato criticamente che i settori di specializzazione per gli psicologi vengono dal Decreto ritrovati negli istituti giuridici oggetto delle controversie, nonché che in assenza di analoghi settori per i medici chirurghi si potrebbe addivenire alla necessarietà per il Giudice di nominare uno psicologo piuttosto che un medico chirurgo nelle predette aree. Per queste ragioni, il Tribunale ha disposto l’annullamento del regolamento impugnato.
Gli argomenti della sentenza
Il primo argomento promosso dal TAR è di immediata condivisibilità, essendo chiaramente censurabile che un istituto giuridico venga adottato come settore di specializzazione, per giunta di una sola categoria professionale. D’altronde, la Medicina Legale non s’è mai incaricata di essere la disciplina di questa o quest’altra materia di diritto, quanto piuttosto “res medica sub specie iuris”, ovverosia l’elemento ermeneutico-metodologico di connessione, di trasduzione delle conoscenze bio-mediche in ambito giuridico.
Il secondo argomento però stimola ancor più riflessioni critiche e prospettazioni teoriche. Infatti, il TAR sottolinea come il regolamento, nella sua forma contestata, avrebbe potuto riservare numerosi, complessi e pregiatissimi settori medico-legali agli psicologi, escludendo di fatto tutti i medici chirurghi (in primis, insomma, medici legali e psichiatri) dall’ufficio di CTU. Francamente non credo fosse nell’intenzione di alcuna categoria professionale addivenire ad una stortura di questo tipo (e.g., come avrebbe potuto esprimersi uno psicologo su un’amministrazione di sostegno richiesta per menomazioni fisiche?), ma senz’altro questa sentenza è una buona occasione per alcune rapide considerazioni di carattere generale.
Il tema fondamentale è che, purtroppo, la Medicina Legale viene da troppi ormai considerata una sorta di umbrella term o, peggio, come uno spazio eterogeneo parcellizzabile, in cui ogni portatore di interessi diverso dal medico chirurgo possa porsi in sostituzione dello stesso a ponte tra la materia sanitaria e quella giuridico-assicurativa. Sia chiaro: l’inclusività e la multidisciplinarietà della Medicina Legale sono patrimoni culturali della Disciplina.
Così come è pacifico che per compiti particolari, come la diagnosi di un quadro complesso, il medico legale, in contesti specifici (e non generalizzabili) dettati da scienza e coscienza, debba avvalersi di altre figure, vuoi medico-chirurgiche vuoi di altra appartenenza professionale. E, infine, che nel predetto regolamento si ritrovino categorie, come quelle del biologo forense, ormai da considerarsi specifiche (per merito anche di altrettanto specifici corsi di Laurea Magistrale) è senz’altro un fatto da accogliere e incoraggiare, a mio avviso.
Ma il rischio che si trasformi la Medicina Legale in un concetto, prima ancora che in una concreta disciplina specialistica, è qualcosa che merita netta censura culturale.
Il corso di specializzazione quadriennale in Medicina Legale prevede infatti una composita formazione teorico-professionale del medico chirurgo, che è insostituibile nella preparazione a rispondere efficacemente a quesiti di giustizia senza causare corto circuiti, deformazioni o “lost in traslation”.
“Medico legale” non aggettivo ma competenza specialistica
Mi si permetta una breve digressione: di fronte ad un caso di richiesta di risarcimento per dislocazione di protesi femorale, non si insegna al medico specializzando tanto come classificare o riconoscere un inadeguato posizionamento della protesi, quanto piuttosto a comprendere quali siano gli interessi giuridici in questione, quali parti documentali vadano attenzionate particolarmente, a individuare attraverso lo studio specialistico dei rapporti causali quali siano le criticità e a loro volta che peso in termini di responsabilità esse abbiano, come valutare il danno etc. Indubbio, lo ripeto, che il medico chirurgo possa servirsi a fini diagnostico-deduttivi di altre figure sanitarie, ma mai si deve ritenere sostituibile l’expertise medico-legale (ove “medico-legale” non è un mero aggettivo, bensì un’attribuzione specialistica).
Il caso del danno psichico
Di fronte a quadri psicopatologici poi, la stessa impostazione del DSM (che è rivolta innanzitutto ai clinici), consente al medico legale, allorquando lo consideri in scienza e coscienza possibile, di esprimersi in termini di diagnosi medico-legale (cosa ben diversa, per ontologia, presupposti eziologici e finalità, dalla diagnosi clinica), specialmente se confortato da documentazione sanitaria di tipo psichiatrico. Così come sono numerosissimi i casi in ambito civilistico di lamentati disturbi psichici in cui il primo passaggio di analisi sia medico-legale piuttosto che psicologico-psichiatrico: il pensiero va alle frequenti situazioni in cui il danneggiato lamenti psicopatologie suffragate da poca e insufficiente documentazione o da certificazioni pur numerose ma seguenti un duraturo vuoto probatorio.
Vieppiù, molti sono i casi in cui prima ancora che ragionare sulla congruità della diagnosi psicologica, viene meno il rapporto causale tra l’allegato disturbo e la condotta di interesse giuridico. Ancora: in ortodossia rispetto alla metodologia richiamata dalla SIMLA, come si può valutare un danno psichico senza non aver ponderato secondo criteriologia medico-legale la portata psicotraumatica di un evento? Tutte queste considerazioni non vogliono polarizzare la prospettiva di discussione in senso opposto rispetto a quello contestato. Ovverosia, non si vuole sostenere che sia il solo medico legale, e non anche lo psichiatra o lo psicologo, a doversi cimentare nei casi richiamati dai cd “settori di specializzazione”.
La sinergia con altri specialisti paga
È esperienza comune – nonché esperienza diretta di chi scrive – quanto sia premiante la sinergia tra medici legali e psichiatri esperti in materia forense tanto in ambito professionale quanto in ambito di ricerca (non mi dilungo sui finanziamenti per la ricerca ricevuti dal settore medico-legale in ragione di questa combinazione disciplinare). Va però ribadito con forza e chiarezza che il medico legale non può diventare un succedaneo di un altro professionista sanitario (così come alcun altro professionista sanitario è succedaneo di uno specialista medico legale).
No alla “sindrome di Leonardo Da Vinci” ma non rinunciamo a quello che siamo
La Medicina Legale non si appropria né sostituisce saperi altrui, ma si incarica di costruire i punti di conoscenza anche specialistica in strutture logiche e argomentative utili al mondo giuridico. Un Maestro della Medicina Legale, Angelo Fiori, ammoniva i medici legali a non lasciarsi corrompere dalla Sindrome di Leonardo da Vinci, ovverosia “il desiderio – tradotto in opere” di potersi cimentare da soli in ogni ambito conoscitivo.
Ma ciò non vuol dire certamente rinunciare ad essere, come scienza di metodo, irrinunciabili come parte di un tutto al servizio di interessi nucleari per il funzionamento giuridico-sociale.