La nostra realtà, in cui la medicina legale è comunque parte dell’architettura giudiziaria e previdenziale del Paese, è ovviamente influenzata da fenomeni antropologico-culturali che si sviluppano all’interno dei flussi trasformativi che fanno parte dell’usuale dialettica evolutiva della società.
Un sistema giudiziario vittimo-centrico
Due sono gli spunti di dibattito e di riflessione che vorrei segnalarvi.
Il primo sorge dalla lettura di un assai interessante articolo del Prof. Vittorio Manes (Ordinario di Diritto Penale dell’Università di Bologna) pubblicato il 19 agosto scorso sul quotidiano il Foglio dal titolo “Come si è passati dal ‘populismo penale’ al ‘perbenismo punitivo” (leggilo cliccando qui).
Rimandando alla lettura dell’articolo per il necessario approfondimento di un tema così complesso possiamo così sintetizzare il senso di questo intervento utilizzando questo inciso contenuto nel pezzo giornalistico: “Si avverte – ormai da tempo – l’esigenza di segnalare come il sistema della giustizia penale, raccoltosi negli ultimi due secoli attorno all’idea-forza della “magna Charta del reo”, appare sempre più curvato in senso vittimocentrico e sempre più assoggettato all’autoproclamazione della vittima prima e fuori del processo; e vada così perdendo il proprio equilibrio, degenerando progressivamente in una sorta di “profezia che si autoavvera” – fatalmente e inesorabilmente – durante il corso del processo, e colorandosi di aspetti che modificano i princìpi di fondo che guidano – e devono guidare – l’accertamento penale”.
Il rapporto con i media
Il Prof. Manes, celiando, quando critica il sistema “vittimo-centrico”, si autoproclama immediatamente impopolare e così faccio io, stando – almeno parzialmente – dalla parte del docente bolognese, senz’altro più autorevole del sottoscritto ma sottolineando che quanto sollevato nell’articolo ha anche una rilevanza nel nostro piccolo mondo medico-legale soprattutto nell’ambito dei “grandi” processi penali che hanno un riflesso importante anche sui media quindi in grado di influenzare opinioni diffuse.
Sto parlando di “grandi processi”, ovvero quelli di più alto impatto mediatico, per i quali, a mio giudizio, le deduzioni del Prof. Manes hanno maggiore valenza anche perché, purtroppo, l’interesse del sistema giuridico penalistico, soprattutto nell’ambito delle indagini preliminari, sembrerebbe attestare un sempre meno diffuso interesse per i delitti contro la persona. Lo dimostra il calo incredibile del numero delle autopsie giudiziarie e delle consulenze tecniche sulle lesioni personali.
E forse anche da questo deriva la diffusa e palpabile insicurezza della gente in un Paese, peraltro, ove il numero degli omicidi è uno dei più bassi d’Europa.
Comunque, ritornando al tema, al di là di fenomeni piuttosto sconcertanti che abbiamo già segnalato quanto a diffusione di competenze “impalpabili” nelle rete televisive, sul web o sui social, non sarebbe ora anche di affrontare il tema del come e cosa comunicare al di fuori dei nostri studi e dalle aule di Giustizia ovvero al mondo che sta fuori bombardato com’è quest’ultimo da un flusso a cascata incontrollabile di notizie e di opinioni?
Cascata, che poggia su due pilastri.
L’orrore e il positivismo spinto pilastri del consenso
Da un lato il fascino innegabile dell’orrore dei fatti su cui operiamo e, mi si scusi, dell’essenza stessa della nostra professione fatta di morte, ossa, intestini, sangue e odore di putrefazione.
Dall’altro, sulla presentazione delle scienze forensi in genere quale espressione di una locomotiva positivistica in grado di decrittare i problemi investigativi che ha come modello più l’“Inno a Satana” carducciano che un approccio giuridico corretto rispetto alla prova scientifica così difficile da raggiungere in sede processuale.
E’ innegabile, per quanto riguarda quest’ultima circostanza, che il peso delle nostre “prove scientifiche”, assai spesso, si poggia su un terreno di fragilità pari a quelle del cristallo di Boemia ove facciamo fatica a superare la base della ben nota “piramide delle evidenze” (serie di casi, case reports, opinione di esperti) a cui si aggiunge, in più, la terribile difficoltà legata alla poliedricità delle variabili connesse all’individualizzazione dei rilievi sul singolo caso.
Ma se tutto ciò, poi, si riversa in un contesto sociale ove, ovviamente, il “mob”, inevitabilmente chiede giustizia per la vittima bombardato com’è dai documentari o dalle fiction“crime” basati su terribili fatti realmente accaduti, allora sono guai per noi e, purtroppo, per la Giustizia.
L’obiettività e la neutralità non fanno audience
Quest’ultima si è prodigata nel corso del suo sviluppo storico nel forse illusorio obbiettivo della presunzione di innocenza e del processo “giusto” e così, come ancora oggi dovrebbe, il centro del sistema processuale dovrebbe essere, nella sua essenza, l’imputato e non la vittima.
Ma se anche noi ci identifichiamo e empatizziamo con la vittima, sul binario del “politicamente corretto”, la nostra debole scienza è in grado di rimanere neutrale?
E tutto ciò quando i Giudici della Cassazione Penale, comprendendo la difficoltà dell’introduzione della prova scientifica nel processo (vedi la famosa sentenza Cozzini) ci dicono che, in primis, non possono che affidarsi all’autorevolezza del perito.
Ma allora che destino avrà il processo se il detentore benché autorevole della nostra traballante scienza, naviga nel mainstream della solidarietà per la vittima invece di aver piantati i piedi nel cemento dell’obiettività basata, peraltro spesso, su nebulosi e incerti principi e sulla neutralità assoluta.
Ma è un fatto: obiettività e neutralità non sono nient’affatto spettacolari e, anzi, sono piuttosto noiose perché sottintendono complesse deduzioni e valutazioni che spesso conducono a vicoli ciechi e non esplodono nella sfavillante luce del sapere che vince il delitto e che fa giustizia sul colpevole.
Le nostre grandi responsabilità
Pensiamoci e riflettiamoci insieme perché siamo importanti e abbiamo grandi responsabilità non solo per dimostrare le nostri grandi possibilità ma anche per evidenziare i nostri altrettanto grandi limiti.
E allora, dunque, grande umiltà prima che l’Hybris dell’audience ci allontani da verità “noiose” ma più aderenti al nostro ruolo.