Sul “danno differenziale” interviene ancora la Corte di Cassazione
E’ recentissima un’ordinanza della Cassazione Civile, la N. 21261 del 30 luglio scorso (Presidente Travaglino, relatore Rubino) che affronta, ancora una volta, il controverso argomento del cosiddetto “danno differenziale” anche in relazione con le concause di lesione e menomazione.
Qui sotto la potete leggere e scaricare:
Sulla decisione della Suprema Corte, il Prof. Gian Aristide Norelli, già Ordinario di Medicina Legale dell’Università di Firenze, ci ha fatto pervenire, il contributo che seguirà e che noi assai volentieri pubblichiamo.
Il pensiero del Prof. Norelli
La sentenza della Suprema Corte, n. 21261 del 30 luglio 2024, riproponendo la, ormai potrebbe dirsi ampiamente nota ed abusata, posizione della Corte stessa sulla annosa questione del danno differenziale, e nuovamente definendo le modalità risarcitorie con cui la Corte ha da tempo affrontato la questione induce a considerare nuovamente il tema, quantunque sotto una diversa prospettiva. Le modalità risarcitorie, infatti, sono definite in modo chiaro nelle espressioni della Suprema Corte e neppure meriterebbe il conto ritornarvi, se non per un duplice ordine di considerazioni che, a mio sommesso avviso, non può trovare concorde la Medicina Legale, definibili ai margini della metodologia con cui si stabilisce il risarcimento dovuto per un, impropriamente detto, danno differenziale.
“Danno differenziale” o “differenziale di danno”? Non facciamo confusione
Il primo aspetto riguarda la perseveranza nell’errore di utilizzare in modo generico ed inappropriato il termine danno differenziale quando, come più volte si è detto e come è noto a chi è aduso argomentare in termini biologici (quantunque sub specie juris) meglio sarebbe stato adottare la più chiara dizione differenziale di danno, superandosi il rischio di confondere fra maggior danno (situazione, cioè, in cui a fronte di una inabilità non ancora stabilizzata, interviene una nuova causalità lesiva, donde la risultante di inabilità è maggiore di quella che in ogni modo si sarebbe determinata in conseguenza del primo evento ) rispetto alla situazione in cui a fronte di una inabilità preesistente stabilizzata, occorre un nuovo fatto lesivo, cui consegue una invalidità che, aggiungendosi alla prima, determina una invalidità complessiva che rappresenta la resultante delle due (o più) concausalità lesive.
Nel primo caso ci si trova di fronte ad una concausa di lesione, da cui deriva una sola invalidità concretamente percepibile ed una, semmai, ipotetica e virtuale quale sarebbe conseguita alla prima lesione se non si fosse prodotta la seconda (o le altre successive) prima della stabilizzazione; nel secondo si parla di concause di inabilità, nella misura in cui è l’invalidità, già stabilizzata, preesistente, che concretamente si associa alla seconda, nella produzione di una altrettanto concreta invalidità complessiva.
Si tratta forse di un lessico desueto, ma che mai dovrebbe dimenticarsi, ricordando come nel primo caso si tratta di invalidità monocrona (conseguente, cioè a più lesioni cui ha fatto seguito un unico momento di invalidità stabilizzata), mentre nel secondo la invalidità è policrona, conseguente, cioè a più invalidità stabilizzate, conseguenti a diverse e successive forme di lesività.
Le concause
Ma ciò che nel momento preme soprattutto sottolineare è il secondo aspetto, inerente l’argomento delle concause sul piano di una interpretazione più propriamente medico-legale, che la Suprema Corte sembra, invece, affrontare, in un modo meritevole di attenta considerazione.
Il caso riguarda un Soggetto che, per quanto di interesse ai presenti fini, mostrava le sequele, ancora in dinamica evoluzione, di un infarto del miocardio, cui si è sovrapposta una lesività ascrivibile ad erronea condotta sanitaria, cui è conseguita una invalidità riconducibile ad ictus cerebrale.
In sintesi, per tale aspetto, la Corte ha argomentato nei seguenti termini relativamente alla considerazione delle concause:
“……2) tuttavia, in caso di coesistenza –come nella specie – di una menomazione non imputabile ad errore medico e di altra menomazione ad esso riconducibile, vi è spazio per il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno differenziale, calcolato come sopra, soltanto nel caso in cui, con giudizio controfattuale ex post, si accerti che le due tipologie di postumi (quella indipendente dall’errore medico, nel nostro caso, i postumi dell’infarto, e quella provocata dall’errore medico, nel nostro caso, i postumi dell’ischemia cerebrale), siano in rapporto di concorrenza e non di semplice coesistenza, ovvero che la presenza della prima tipologia di postumi incida negativamente, aggravando la situazione del soggetto leso, sui postumi derivanti dall’errore medico“.
l concetto di “concausa” utilizzato dalla Cassazione è superato
In altri termini, la Corte sembra considerare le conseguenze dei due eventi invalidità coesistenti e non concorrenti, richiamandosi a riferimenti biologici che è eufemistico definire superati. Non vi è, infatti, che possa oggi ancora negare che quando le menomazioni incidono su sistemi organo funzionali che operano con meccanismo e finalità convergenti, si è innegabilmente di fronte ad invalidità concorrenti e non coesistenti, come da decenni la Medicina Legale più classica ha sostenuto e dimostrato, per cui la prensione e la deambulazione concorrono, come concorrono il senso della vista e l’apparato locomotore; and so on con evidenze che sarebbe davvero pleonastico ulteriormente proporre.
Nella fattispecie, dunque, non vi è chi possa negare che l’infarto e l’ischemia cerebrale traggono entrambi la propria matrice causale dal sistema vascolare e le conseguenze di un danno non possono non indurre sinergiche limitazioni in un soggetto che soffra la conseguenze lesive di un unico distretto pur operante in ambiti topograficamente diversi, anche se funzionalmente sinergici, né sembra riconducibile in dubbio, che la funzione cardiaca e quella encefalica sono ben lungi dal potersi considerare coesistenti, essendo evidente la concorrenza di due “organi” (il cuore e l’encefalo) che trovano nell’apporto del circolo ematico e nelle conseguenze anatomo-funzionali di un suo difetto, il sostegno della loro vitalità e della loro dinamica funzionale.
Davvero esiste una diversità tra invalidità coesistenti e concorrenti
Ma ciò che sembra doversi ancora più attentamente considerare, prendendo l’ordinanza come utile spunto ed occasione per un approfondimento interpretativo, è se veramente, soprattutto dopo l’avvento del danno biologico, ancora abbia un senso in tale ambito di proporre una fittizia diversità fra invalidità coesistenti e invalidità concorrenti.
L’invalidità riferita al danno biologico, infatti, riguarda una dinamica funzionale che si fonda sulla capacità di svolgere attività quotidiane comuni a tutti, la cui integrità, pertanto, rappresenta il presupposto per valutarne la menomazione e ciò che effettivamente poteva assolversi con riferimento allo stato anteriore. Ciò che si deve risarcire, come è noto, è il bene effettivamente perduto, la forzosa rinuncia come la definisce la Suprema Corte e cioè l’integrità dell’organismo nel suo insieme (e cioè rispetto a tutti gli ambiti sensoriali e organo-funzionali) che ne costituiscono l’essenza; una essenza che, non lo si può negare, è assolutamente unica ed unitaria.
Invalidità diverse, che insistono su sistemi organo-funzionali diversi, potranno, dunque, incidere negativamente sulla funzione unica dell’organismo, in modo più o meno evidente, mentre in un siffatto riferimento non sembra possibile considerare una coesistenza (e non una concorrenza) per ciascuno dei concorrenti che singolarmente concorrono a formare l’organismo nella sua completezza ed integrità anatomo-funzionale.
Personalizzazione del danno e unicità dell’organismo
Non solo, ma nel riferimento doveroso alla personalizzazione del danno e nella necessità di escludere ogni riferimento alla capacità a produrre reddito, appare evidente come la percezione delle conseguenze della invalidità fisica, in riferimento alla soggettività individuale, non possono che assumere significato e rilievo sempre nella considerazione insopprimibile della unicità dell’organismo, in riferimento alla considerazione di elementi la cui realtà deve essere provata in assenza di vaghe teorizzazioni, ma in specifico riferimento alla specifica circostanza per cui si è chiamati ad accertare e valutare il danno extrapatrimoniale (danno biologico, dunque, ma non solo, dovendosi considerare anche conseguenze che non sono sottoposte alla rigida logica della percentualizzazione)
E’ una discussione, questa, che sembra interessante proporre alla Comunità Medico-Legale, affinchè si possa intervenire a correggere molte situazioni che non si limitano alla valutazione del danno in responsabilità civile. Basti pensare ai problemi inerenti la infortunistica del lavoro dopo il Decreto n. 38 del 2000 che ha portato il danno biologico alla attenzione valutativa e che considera in termini puntuali, la situazione delle concause di invalidità (di origine lavorativa e non) e richiama anche l’utilizzazione della formula di Gabbrielli la cui costituzione, con riferimento al danno biologico, non può non necessitare di attenta modifica. Ed ancor più se si considera il momento che si sta attraversando, in cui è evidente la necessità di riconsiderare le tabelle di valutazione della invalidità civile nella nuova prospettiva di valutazione sottoposta all’uso delle scale ICF e ICD e per le quali il riferimento alla concorrenza di invalidità, appare argomento di sostanziale valore.
Concause come punto di partenza per una rivisitazione dei concetti di danno non patrimoniale
Una rivisitazione lessicale, dunque, ma non solo, di un argomento fondamentale sul piano della Dottrina Medico Legale come le concause, potrebbe essere un significativo punto di partenza per sottoporre a critica rivisitazione molti spazi della Disciplina che meritano da tempo di essere opportunamente adeguati alla realtà che stiamo vivendo. Forse è il concetto stesso di danno biologico che dovrebbe essere rivisto al pari della personalizzazione del danno (e la nuova legge sulla Disabilità offre interessanti spunti e considerazioni di merito e di metodologia).
Spero che queste poche ed abbastanza ovvie righe possano essere di stimolo a noi Tutti, per ricordare che la Medicina Legale è Scienza viva ed attenta ai problemi di cui quotidianamente si occupa e della cui evoluzione migliorativa proprio chi opera all’interno di essa è e deve rimanere il più significativo promotore.