Abstract
Richiamando il precedente articolo “LA RELATIVITA’ ESISTE…ANCHE NEL DIRITTO, MA CON QUALCHE ECCEZIONE” (clicca qui per leggere), ritorniamo sul tema della relatività con un pò di temerarietà interdisciplinare, addentrandoci in una tematica umana o umanistica, che con quella teoria ha molto in comune: il riconoscimento del danno parentale. Un articolo di Davide Santovito e Saverio Gerace.
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La Suprema Corte di Cassazione Civile Sezione 3 reinterviene sulla tematica con la sentenza n. 25541/2022 del 30.09.2022, in merito ad un caso di richiesta civile a seguito di responsabilità medica. Nel caso di specie, il medico fu denunciato per omicidio colposo a causa di errata diagnosi e mancato piano terapeutico, ma assolto in sede penale, i familiari si appellarono ed ex art. 622 c.p.p. (vedi precedente articolo) e la causa fu rinviata al giudice civile competente, per valutare la richiesta di risarcimento del danno da perdita parentale.
La causa civile fu riassunta avanti alla Corte di Appello Civile che accolse la richiesta degli attori (figli del defunto), riconoscendo come danno iure proprio la lesione del rapporto parentale.
Il Convenuto ricorse per Cassazione.
In sostanza, il ricorrente sosteneva l’illegittimità della sentenza della Corte d’Appello Civile, lamentando problematiche squisitamente procedurali e di stretta pertinenza giurisprudenziale inerenti alla trasmigrazione del procedimento dal giudizio penale a quello civile, nonché nel riconoscimento alla parte convenuta del diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale per la sola esistenza del legame di parentela con il defunto. Il ricorrente, infatti, sosteneva che il danno c.d. parentale lungi dal poter essere considerato in re ipsa, mentre richiedeva una puntuale allegazione.
La Cassazione, ritenendo erronee le motivazioni del ricorso, rigettò la predetta richiesta e, conseguentemente, condannò il medico al risarcimento del danno parentale.
La sentenza della Corte di Cassazione può suddividersi in due importanti paragrafi.
Il primo paragrafo riassume i tre motivi di ricorso e attiene alle regole di giurisprudenza che riguardano la trasmigrazione del fatto dal processo penale a quello civile, a cui la Corte si riferisce richiamando quattro principi già espressi dalla medesima con la sentenza n. 15859 del 12.06.2019 (si tenga sempre in considerazione quanto già scritto in merito all’art. 622 c.p.p.):
- il diritto al risarcimento del danno sia un diritto eterodeterminato;
- “i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno prescindono dall’identificazione del fatto come reato: è pertanto legittima, in sede di giudizio dinanzi alla Corte d’Appello Civile, una eventuale, diversa valutazione degli stessi”;
- all’esito del rinvio al giudice civile, da parte del giudice penale, il fatto storico perde la sua connessione con il reato e riacquisisce i caratteri dell’illecito civile, così seguendo propri canoni probatori, essendo venuta meno la ragione stessa di attrazione dell’illecito nell’ambito delle regole della responsabilità penale;
- conseguentemente, il giudice civile dovrà applicare in tema di causalità il canone probatorio del “più probabile che non” e non quello dell’alto grado di probabilità logica e di credenza razionale.
Il secondo paragrafo della sentenza, quello di cui in questo articolo si discute, tratta il quarto motivo del ricorso, ossia il diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, per la sola esistenza del legame di parentela. È in questa motivazione che la Corte di Cassazione entra nel merito del c.d. Danno Parentale.
In particolare, la Corte ricorda come “a fronte della morte o di una gravissima menomazione dell’integrità psicofisica di un soggetto causata da un fatto illecito di un terzo, il nostro ordinamento riconosce ai parenti del danneggiato un danno iure proprio, di carattere patrimoniale e non patrimoniale, per la sofferenza patita in conseguenza all’irreversibile venir meno del godimento del rapporto parentale con il congiunto.”.
Gli Ermellini specificano che a fronte di una gravissima menomazione all’integrità psicofisica o della morte di una persona causata da un fatto illecito di un terzo, il nostro ordinamento riconosce ai parenti un duplice danno iure proprio, sia di carattere patrimoniale che non patrimoniale, per il venir meno del godimento del rapporto parentale con il congiunto. È riconosciuta una voce risarcitoria che, globalmente, ha lo scopo di ristorare il familiare sia della sofferenza psichica sofferta in conseguenza dell’impossibilità di proseguire il proprio rapporto di comunanza familiare, sia lo sconvolgimento di vita destinato ad accompagnare l’intera esistenza del soggetto che l’ha subita, questo come riflesso dinamico relazionale. Vi è quindi un quantum ristoratore che deve tener in considerazione non solo la sofferenza che la perdita di un congiunto arreca, ma anche quanto questa sofferenza, da intendersi sotto il profilo morale, sia destinata ad accompagnare il sopravvissuto nel suo residuo arco di vita.
Altro è la prova del danno. È la vittima che deve dimostrare (onere di allegazione) i fatti costitutivi della propria pretesa e del danno subito, che nel caso “potrà essere soddisfatto anche ricorrendo a presunzioni semplici e massime di comune esperienza”.
La portata della sentenza, per la stesura della quale la Corte si rifà a precedenti pronunciamenti che risalgono fino al 2016, risiede nel fatto che è del tutto connaturale all’essere umano soffrire per la scomparsa di un familiare (coniuge, genitore, figlio, fratello) e quindi il rapporto di parentela non necessita di “prove schiaccianti” per dimostrare questo patimento: tale sofferenza è di comune esperienza. In altre parole, la Corte evidenzia il sentire comune per la scomparsa di un familiare, danno per il quale è sufficiente la presunzione semplice, vista la sua comune portata.
Sarà compito e possibilità del convenuto dimostrare il fatto contrario, ossia l’inesistenza del legame affettivo.
Il fulcro del riconoscimento del danno parentale, a nostro parere, risiede in principi che la nostra stessa Costituzione prevede all’art. 29 e il cui richiamo da parte della Corte pare ispirarsi quando si esprime sul vincolo di parentela “la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare”.
La Corte ha però precisato che la presenza di un legame qualificato è un fatto attinente all’elemento idoneo a fondare la presunzione dell’esistenza del danno in capo ai familiari del defunto, mentre è cosa distinta la risarcibilità di tale danno per il sol fatto di un legame familiare. Per questo ultimo aspetto è necessario che il danneggiato fornisca la prova di concrete circostanze che consentano di aumentare il valore tabellare ai fini della quantificazione del danno, così da permettere al giudice di avere elementi adeguati per la personalizzazione dello stesso. Infatti, ai fini liquidativi del danno non patrimoniale, il danneggiato ha l’onere di fare istanza di applicazione di un criterio tabellare, mentre spetta al giudice di merito liquidarlo mediante la tabella conforme al diritto, là dove eventuali correttivi sono ammissibili in presenza di situazioni di cui sia stata fornita adeguata motivazione.
Si può concludere che il legame affettivo derivante dal rapporto parentale (coniuge, genitore, figlio, fratello) è sì un elemento presuntivo sufficiente per fondare la richiesta risarcitoria, salvo la prova contraria ossia l’inesistenza del legame parentale, ma il quantum del danno non patrimoniale va calibrato e corretto, personalizzato, in base alle particolarità del caso che dovranno essere provate dal danneggiato, o prove contrarie offerte dal convenuto.
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