Abstract
La Cassazione penale dice un no netto all’esecuzione delle pratiche radiografiche che siano prescritte da periti o consulenti tecnici.
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Una recente sentenza della Corte di Cassazione penale (Sez. 3 n. 36820 del 2022) irrompe nella atavica discussione che riguarda i poteri (o le facoltà) del CTU nel prescrivere esami radiologici nel corso delle operazioni di consulenza tecnica di ufficio. Un po’ come il fulmine di Thor si scaglia a terra mandando a gambe all’aria i nemici, così la pronuncia della Suprema Corte penale getta sul campo un argomento che crea non poco dibattito tra il Collegio ed i consulenti delle parti, ma anche tra gli avvocati ed il magistrato.
Procediamo però con ordine, nel tentativo di offrire qualche spunto di riflessione e di valutazione di un argomento assai difficile, che sicuramente si spera possa ravvivare la discussione.
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Il fatto
Un odontoiatra era condannato dal tribunale di Palermo (03.11.2021) per aver esposto numerosi pazienti a radiazioni ionizzanti con apparecchiature “Cone beam” senza giustificarne il ricorso, senza documentare esigenze diagnostiche e senza valutare i potenziali vantaggi diagnostici o terapeutici. I fatti risalivano al 16.01.2016. Averso tale decisione, l’odontoiatra ricorreva in cassazione.
Nel ricorso, l’odontoiatra sosteneva che il tribunale aveva erroneamente interpretato la disciplina giuridica attinente all’uso delle radiazioni ionizzanti nelle attività diagnostiche complementari (Decreto Legislativo 26 maggio 2000, n. 187 “Attuazione della direttiva 97/43/ EURATOM in materia di protezione sanitaria delle persone contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti connesse ad esposizioni mediche”) da parte del medico chirurgo non specialista in radiologia/radiodiagnostica. Contemporaneamente, il primo motivo di ricorso sollevava anche una errata interpretazione, da parte del tribunale, dei concetti di contestualità, integrazione e non dilazionabilità dell’esame “cone beam” per fini diagnostici in materia odontoiatrica, come attività diagnostica complementare. Nello specifico, la parte sosteneva che per fini diagnostici in materie odontoiatrica, l’esito di tale esame era fondamentale per conoscere le condizioni in cui si trovava il paziente e quindi l’applicabilità di un determinato piano di trattamento, non potendosi trascurare una accurata analisi della qualità della struttura ossea della bocca. Ne deriva, per la difesa del ricorrente che le caratteristiche di contestualità, integrazione e non dilazionabilità devono essere ritenute come ricorrenti per l’odontoiatra, anche qualora il paziente decida di no volersi sottoporre all’intervento proposto dallo specialista.
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La decisione
La Suprema Corte penale lette le motivazioni difensive, rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Se questa è la storia del fatto, i motivi della decisione meritano di essere verbalizzati in un tempo presente, perché è attualissima la materia del contendere.
Nella sentenza, la Corte specifica che il Decreto legislativo 187/2000 è stato abrogato dal decreto legislativo 101 del 31 luglio 2020, che ha recepito la Direttiva 2013/59/Euratom (norme fondamentali di sicurezza relative alla protezione contro i pericoli derivanti dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti), ma sostanzialmente i due Decreti sono sovrapponibili nell’esprimersi sull’attività radiodiagnostiche complementari.
Difatti tali attività sono quelle attività di ausilio diretto al medico specialista o all’odontoiatra per lo svolgimento di specifici interventi di carattere strumentale propri della disciplina, purché contestuali, integrate e indilazionabili, rispetto all’espletamento della procedura specialistica.
Tale questione, specifica la Corte, attiene alle esposizioni mediche e gli Ermellini sottolineano che la violazione contestata è relativa alla mancata ottemperanza agli obblighi di giustificazione ed ottimizzazione, i cui criteri di legge trovano piena continuità legislativa nel passaggio dal Decreto legislativo 187/2000 al Decreto legislativo 101/2020.
La sentenza prosegue specificando che per “contestuale” deve intendersi tutto quello che avviene nell’ambito della prestazione stessa ed ad essa rapportabile, sia sotto l’ambito temporale che funzionale in cui si sviluppa la prestazione strumentale specialistica. La pratica complementare deve essere un elemento di ausilio alla prestazione stessa, con ricadute sullo svolgimento dello stesso intervento specialistico di carattere strumentale.
La Corte affronta anche il requisito della dilazionabilità: l’esecuzione di accertamenti radiodiagnostici complementari è rappresentato inoltre dalla necessaria condizione che la pratica complementare, per risultare utile ed efficace, deve risultare funzionalmente non dilazionabile in tempi successivi rispetto all’esigenza di costituire un ausilio diretto ed immediato al medico specialista o alli odontoiatra per l’espletamento della procedura specialistica stessa.
La Suprema Corte ha quindi ritenuto giustificate ed ammesse solo quelle pratiche complementari che “per la loro caratteristica di poter costituire un valido ausilio diretto ed immediato per lo specialista, presentino il requisito sia funzionale che temporale di essere “contestuali”, “integrate” ed “indilazionabili” rispetto allo svolgimento di specifici interventi di carattere strumentale propri della disciplina”.
Di fondamentale importanza è il fatto che le pratiche radiologiche complementari devono essere di ausilio diretto ed immediato, in un contesto temporale in cui la stessa prestazione sanitaria è erogata, tale per cui in assenza di dette pratiche radiologiche è la stessa prestazione sanitaria che non può essere effettuata o, se attuata, risulterebbe inefficace o portatrice di danno al paziente. Solo in questa stretta visione le pratiche radiologiche complementari sono giudicate “contestuali”, “integrate” ed “indilazionabili” e come tali proprie della disciplina.
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La direttiva EURATOM e la CTU
La Direttiva Euratom ha (ed aveva) come scopo quello di stabilire norme di sicurezza relative alla protezione contro i pericoli derivanti da radiazioni ionizzanti. Tale principio e la lettura della sentenza di Cassazione qui riportata apre una riflessione in ambito di consulenza tecnica di ufficio, ed anche in merito alle consulenze di parte, volendo offrire un primo commento “a caldo” quale punto di partenza.
Già il precedente Decreto legislativo 187/2000 prevedeva all’art. 3 il principio di giustificazione, che interessava anche l’esposizione di persone nell’ambito di procedure medico-legali.
La norma all’articolo 2 definiva le procedure medico – legali come procedimenti effettuati a fini assicurativi o legali, anche senza indicazione clinica, previsione questa richiamata specificatamente anche all’art. 4 che individuava il principio di ottimizzazione, secondo cui particolare attenzione deve essere posta a che la dose derivante da esposizione medico-legale di cui all’articolo 1 comma 2, lettera e), sia mantenuta al livello più basso ragionevolmente ottenibile.
Ne deriva che la previsione di giustificazione dell’art. 3 era molto stringente, posta l’assoluta assenza di qualsivoglia finalità clinica o di beneficio alla salute del soggetto, a fronte di una certa, per quanto bassa, dose di rischio radiologico.
Il recepimento della Direttiva Euratom 2013/59 da parte del Decreto Legislativo 101/2020 è ancora più specifico nella trattazione di utilizzo di radiazioni ionizzanti in ambito medico legale.
Il Decreto 101/2020 distingue nettamente le esposizioni in mediche e non mediche, ma tale distinzione non fa venir meno la protezione sanitaria delle persone a qualsiasi tipo di esposizione (art. 1), i cui principi di radioprotezione rimangono quelli di giustificazione, ottimizzazione e limitazione delle dosi.
L’art.157 vieta l’esposizione non giustificata e obbliga a tener in considerazioni l’efficacia di tecniche alternative che non comportano un’esposizione. Il processo di giustificazione è preliminare e in merito alle esposizioni non mediche, il comma 7 del citato articolo specifica come in questo ambito le radiazioni non presentano un beneficio diretto per la salute della persona esposta e richiedono una giustificazione particolare, dovendo effettuarsi ai sensi dell’art. 169.
A parere di chi scrive, e di qui si vuole partire, la giustificazione particolare per le esposizioni non mediche è solo ed esclusivamente quella che arreca alla persona il riconoscimento di un diritto costituzionalmente garantito, che esula dalla salute, o il cui rango di tutela è riconosciuto dalle norme o convenzioni internazionali, quale quella di natura identificativa (previsto dallo stesso art. 169 al comma 2.b), che fa parte della Convenzione dei Diritti del Fanciullo, ratificata dalla Legge 176/1991, art. 8, o indagini di natura penalistica, si pensi ad esempio allo spaccio di stupefacenti.
Di tenore del tutto differente è invece la ritenuta valida giustificazione della “ricerca della verità” in ambito di CTU, ossia all’interno di un procedimento civile per la valutazione di un danno o di una invalidità. Difatti, nel corso di una CTU non è certo un dato di salute a beneficio dell’esposto che può rendere giustificata una esposizione. Tale pratica è regolamentata dall’art. 169 che consente al comma 1.b dell’art. 169:
“tecniche diagnostiche nell’ambito di procedure medico-legali o assicurative che non presentano un beneficio diretto per la salute delle persone esposte, su richiesta di un medico prescrivente recante la motivazione”. Tuttavia, il comma 2.c stabilisce che “tutte le singole procedure che comportano esposizioni con metodiche per immagini a scopo non medico devono essere effettuate previa giustificazione individuale sotto la responsabilità clinica di un medico specialista in radiodiagnostica”.
La base della giustificazione non può risiedere nella tutela del diritto della salute che vuole esercitarsi in ambito giuridico, in quanto tale diritto in ambito radioprotezionistico si esplica là dove l’esposizione alle radiazioni ionizzanti comportino un vantaggio diretto ed immediato alla salute dell’esposto. Si è quindi di fronte, a parare di chi scrive, di due diritti distinti di cui quello in ambito giuridico (individuazione e valutazione del danno biologico o danno non patrimoniale) non trova accoglimento nello spirito del Decreto 101/2020.
Inoltre, posto che il procedimento civile presuppone obblighi probatori a carico delle parti in causa, l’esposizione a radiazioni ionizzanti, eseguite alla ricerca di una lesione o di una menomazione a fondamento della richiesta del danno, possono di fatto sollevare una delle parti dall’onere di provare le ragioni mosse avanti al giudice. C’è infatti da chiedersi per quale motivo la parte interessata non abbia eseguito prima l’accertamento radiologico o i medici curanti non abbiano prescritto l’accertamento.
La sentenza della Suprema Corte penale ha fissato un limite alle indagini radiologiche complementari, identificando criteri precisi a cui lo specialista non radiologo deve ancorare il proprio operato.
Analogamente, dovrebbe ritenersi che per pratiche non mediche ed a scopi medico legali o assicurativi, soprattutto in corso di procedimenti civili e CTU, l’esposizione a radiazioni ionizzanti non è giustificata, salvo probabilmente casi rarissimi, ove però vi sia una precedente giustificazione individuale, da intendersi non solo sotto il profilo del rischio radiologico, ma soprattutto del bilanciamento degli oneri probatori delle parti e degli obiettivi specifici dell’esame, sempre che non vi siano strumenti o tecniche diagnostici alternativi in grado di fornire la stessa informazione.
C’è da riflettere…
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