Abstract
La Suprema Corte di Cassazione Civile Sezione 3°, con l’ordinanza n. 509/2023, interviene sul valore del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) come evento straordinario di tutela della salute mentale del paziente, non della società, ed individua l’incapace come soggetto fragile, che possiede o può possedere barlumi di lucidità che gli consentono di accettare o condividere un iter terapeutico volto al recupero del benessere psico-fisico, inteso come attuale concetto di salute. Un articolo del nostro Davide Santovito e della Dott.ssa Romagnollo Chiara, specialista in formazione in Medicina Legale dell’Università di Torino.
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Nel caso di specie, un paziente nel Settembre 2001 si era recato presso il Centro di Salute Mentale per ritirare copia di una propria cartella clinica e in tale occasione era trattenuto presso i locali della struttura, anche mediante l’ausilio della forza pubblica, in quanto i sanitari avevano dato l’avvio ad un trattamento sanitario obbligatorio, che si era reso necessario in conseguenza della manifestazione di un disturbo delirante cronico in fase di scompenso. Peraltro, dopo 16 giorni di trattamento, il paziente dichiarava di accettare volontariamente la prosecuzione dei trattamenti terapeutici.
Il ricorrente conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale l’A.S.S e il Ministero dell’Interno, per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti per essere stato sottoposto ad un Trattamento Sanitario Obbligatorio in assenza del consenso.
Il primo tribunale adito dichiarò il difetto di legittimazione e il ricorso avanti un secondo tribunale, 10 anni dopo, respingeva la domanda proposta nei confronti dell’A.S.S. per difetto di prova e nei confronti del Ministero dell’Interno ritenendo impredicabile qualsiasi ipotesi di contatto sociale che giustificasse la proposizione di una richiesta risarcitoria.
Il ricorrente ricorse quindi in Appello. La Corte d’Appello, rilevata la tardività della domanda sul danno da mancanza del consenso informato, respinse nel merito l’impugnazione, ritenendo assorbita ogni altra questione sollevata dal Ministero in tema di contatto sociale.
Il paziente ricorse per Cassazione.
Gli Ermellini nell’ordinanza hanno rimarcato i seguenti principi in tema di consenso informato:
- la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost.;
- sebbene l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico (comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute), in ragione dell’unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente, non può affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tale da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno; è possibile, invece, che anche l’inadempimento dell’obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e benefici della terapia si inserisca tra i fattori “concorrenti” della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo quindi riconoscersi all’omissione del medico una astratta capacità plurioffensiva, potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di risarcimento qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate specifiche conseguenze dannose;
- qualora venga allegato e provato, come conseguenza della mancata acquisizione del consenso informato, unicamente un danno biologico, ai fini dell’individuazione della causa “immediata” e “diretta” (ex art. 1223 c.c.) di tale danno-conseguenza, occorre accertare, mediante giudizio contro fattuale, quale sarebbe stata la scelta del paziente ove correttamente informato, atteso che, se egli avesse comunque prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento, la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute, se determinata dalla errata esecuzione della prestazione professionale; mentre, se egli avesse negato il consenso, il danno biologico scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile “ab origine” alla violazione dell’obbligo informativo, e concorrerebbe, unitamente all’errore relativo alla prestazione sanitaria, alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno- conseguenza;
- le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico eventualità non rientrante nell‘id quod plerumque accidit (Cass. 2847/2010 e successive conformi): al riguardo, la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, un danno risarcibile in re ipsa — nella specie, derivante esclusivamente dall’omessa informazione.
Sulla base di tali principi, l’ordinanza traccia i confini entro cui ci si deve muovere ai fini del risarcimento in tema di consenso informato. Con riferimento al caso di specie, la Corte specifica che:
- nell’ipotesi di omessa o insufficiente informazione riguardante un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente e al quale egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi, nessun risarcimento sarà dovuto;
- nell’ipotesi di omissione o inadeguatezza informativa che non abbia cagionato danno alla salute del paziente ma che gli ha impedito tuttavia di accedere a più accurati e attendibili accertamenti, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, all’autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente alleghi che dalla omessa informazione siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e di contrazione della libertà di disporre di sé, in termini psichici e fisici.
Si è sostanzialmente sottolineato che “il diritto al consenso informato del paziente, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza” ovvero che non “si tratti di trattamento sanitario obbligatorio“.
Osserva il Collegio come l’ospedalizzazione in regime di trattamento sanitario obbligatorio per un disturbo mentale costituisce un evento intriso di problematicità̀, essendo associata ad una presumibile condizione di incapacità̀ del paziente a prestare un valido consenso. Nonostante, dal punto di vista normativo, un paziente sia considerato, secondo una visione dicotomica, capace oppure incapace, la realtà̀ clinica suggerisce che possano esistere degli spazi di autonomia e libertà decisionale residui anche in pazienti sottoposti a TSO.
Un approccio di tipo multidimensionale, basato sulla valutazione nel singolo paziente della capacità a prestare consenso, costituisce un possibile terreno sul quale ricostruire, all’interno della relazione medico-paziente, un percorso di ripristino della capacità di prestare consenso alle cure.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso citando il principio di diritto in materia di Trattamento Sanitario Obbligatorio (artt. 34 e 35 della Legge 833/78 sui Trattamenti Sanitari Obbligatori):
il Trattamento Sanitario Obbligatorio è un evento terapeutico straordinario, finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente, che può essere legittimamente disposto solo dopo aver esperito ogni iniziativa concretamente possibile, sia pur compatibilmente con le condizioni cliniche, di volta in volta accertate e certificate, in cui versa il paziente – ed ove queste lo consentano – per ottenere il consenso del paziente ad un trattamento volontario.
Si può intervenire con un trattamento sanitario obbligatorio anche a prescindere dal consenso del paziente se sono contemporaneamente presenti tre condizioni:
- l’esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici;
- la mancata accettazione da parte dell’infermo degli interventi terapeutici proposti;
- l’esistenza di condizioni e circostanze che non consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra-ospedaliere.
Nel caso di specie il TSO era stato attivato in quanto il paziente presentava uno scompenso psichico del suo disturbo delirante cronico e contestualmente rifiutava i trattamenti sanitari proposti. Data la condizione psichica del paziente al momento dell’accaduto, non era stato dunque possibile proporre e far sottoscrivere un consenso informato al ricorrente.
Si può dunque concludere che per quanto il trattamento Sanitario Obbligatorio sia un atto medico d’urgenza richiesto e convalidato non deve prescindere dalla strenua ricerca del massimo benessere psico-fisico del paziente e dev’essere attuato solo in situazioni di estrema urgenza che mettono a rischio la salute fisica e mentale del paziente, non della società, qualora lo stesso non sia in grado di esprimere un consenso informato.
Il TSO non deve essere un mero strumento coattivo per la difesa sociale della collettività, ma deve essere uno strumento di difesa della salute psichica del paziente, quale estrema ratio.
Anche volendo ricorrere ad un altro ramo del diritto, quello pubblico amministrativo, ben si può pensare che il TSO possiede quegli elementi di legittimità, da intendersi come l’esercizio di un potere pubblico (l’attuazione e l’esecuzione del TSO, a prescindere dal consenso del paziente, da parte della Sanità pubblica) in conformità alla legge.
La lettura dell’ordinanza fa riflettere sul fatto che, nonostante il TSO sia previsto dalla 833/78, la legge 219/2017 (consenso informato) all’art. 3 (minori e incapaci) prevede quale diritto personalissimo dell’incapace comunque la valorizzazione delle sue capacità di comprensione e di decisione.
Vi è quindi un continuo impulso a non “imporre” la tutela della salute, ma a garantirla in armonia, là dove consentito, con la visione che il paziente ha della propria vita e modo di vivere, ricercando in modo continuo la sua adesione alle cure.
Questa ordinanza rafforza il valore del consenso informato, non sminuendo la portata tutelante del TSO.
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