Abstract
I danni da morte “iure ereditario e iure proprio” rappresentano due categorie di forme dannose a cui la medicina legale fornisce elementi importanti per il loro riconoscimento e determinazione. In questo articolo l’Avv. Antonio Serpetti di Querciara ci aiuta ad orientarci su un terreno scivoloso e poco frequentato dalla nostra dottrina.
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1) I danni iure hereditario
La morte cagionata da un fatto illecito è un evento dal quale possono originare una serie di specifiche voci di danno; in particolare, si distingue tra danni il cui risarcimento sarebbe dovuto al deceduto e che, pertanto, vengono acquisiti dai suoi eredi (iure hereditario) e danni direttamente patiti dai congiunti del de cuius (iure proprio).
All’esito di un’accesa e prolifica giurisprudenza, nonché di un lungo dibattito medico-legale, pare utile esporre l’attuale stato dell’arte.
Costituiscono diritti acquisibili iure hereditario, i diritti risarcitori derivanti dalla dimostrazione dell’esistenza di un danno biologico terminale e/o morale catastrofale (anche detto “da lucida agonia”). Le due tipologie di danno non presentano alcuna disposizione codicistica, ma sono frutto di una complessa elaborazione giurisprudenziale il cui fine è quello di garantire il risarcimento adeguato in caso di lesione di specifici diritti costituzionalmente garantiti e lesi dalla morte conseguente ad un fatto illecito.
Il danno biologico terminale è, ormai unanimemente, inteso quale danno di natura biologica accusato dalla vittima a seguito della lesione del diritto costituzionale all’integrità psico-fisica; si richiede, infatti, che sia riscontrata una patologia medicalmente accertabile che progressivamente peggiori fino a cagionare la morte del soggetto. A tale requisito si aggiunge il “fattore tempo”, elemento imprescindibile ed essenziale. La giurisprudenza, infatti, richiede che la vittima sopravviva temporaneamente alla malattia per un apprezzabile lasso di tempo, ma, concretamente, non si è mai giunti a una definizione univoca del lasso di temporale che deve intercorrere tra il verificarsi della malattia e la morte. Dalle sentenze succedutesi negli ultimi anni, infatti, emerge un ampio spettro di ipotesi che variano dai pochi minuti di sopravvivenza fino alla previsione di diverse giornate di agonia.
Punto d’arresto sul tema è che sia accertata l’esistenza di una malattia patita dal deceduto in un certo arco temporale, denominato spatium vivendi.
Il bene tutelato, infatti, non è la vita in sé, la cui lesione non può generare un danno trasmissibile iure hereditario, bensì, come detto, il diritto alla salute (rectius all’integrità psico-fisica) che, nello specifico caso, è offeso con la massima intensità, esitando nella morte del danneggiato.
L’accertamento del danno biologico terminale è demandato, pertanto, al sapiente giudizio della medicina legale sulla quale incombe l’onere di stimare la gravità della malattia occorsa al danneggiato ed il suo collegamento causale con la morte dello stesso.
Successivamente, il giudice ha il compito di liquidarlo sulla base delle tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale temporaneo previste per l’”inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte” (Cass., sez. lav., n. 36841/2022); la quantificazione viene, dunque, compiuta mediante l’applicazione delle tabelle, tenuto conto dell’eccezionale intensità della menomazione patita che culmina nel decesso.
Il danno morale catastrofale è, invece, un danno morale “di natura del tutto peculiare consistente nella sofferenza patita dalla vittima che lucidamente e coscientemente assiste allo spegnersi della propria vita”.
L’accertamento di tale danno, dunque, richiede la dimostrazione dell’esistenza di un lasso di tempo, anche minimo e non necessariamente apprezzabile (come, invece, richiesto per il danno biologico terminale), in cui la vittima abbia potuto avvedersi e comprendere di essere in procinto di morire. Assume, pertanto, un ruolo decisivo la sofferenza psichica e la disperazione della vittima che comprende l’avvicinarsi inesorabile del proprio trapasso.
Seguendo tale linea interpretativa, la giurisprudenza giunge ad escludere il danno catastrofale in caso di coma o morte immediata, poiché, in tali frangenti, la vittima non ha modo di prendere coscienza delle circostanze letifere nelle quali versa.
L’elemento caratterizzante di tale danno – che permette di distinguerlo dal danno terminale – è l’accertamento di un turbamento psichico dotato di particolare intensità, ma non definibile quale vera e propria malattia psichica, in quanto, generalmente, esso perdura per un lasso di tempo che non consente allo stato di turbamento di degenerare in una vera e propria patologia psichica.
È, dunque, un risarcimento per la sofferenza morale, per il dolore, per il “terror vacui”, ma la prova da fornire al giudicante è alquanto complessa in quanto deve essere dimostrata la presa di coscienza della vittima: l’agonia dev’essere stata lucida.
La liquidazione, non avendo dei termini concreti di riferimento, è eseguita secondo un criterio equitativo puro, che tenga conto del caso concreto e della sofferenza collegata alla consapevolezza della vita che volge inesorabilmente al termine.
La Suprema Corte, inoltre, propone, per garantire l’uniformità nel trattamento liquidatorio a livello nazionale, di adottare la Tabella Milanese quale base di calcolo dell’indennizzo del danno catastrofale, salvo esigenze concrete che ne giustifichino la disapplicazione (cfr. da ultimo anche Cass. n. 36841/2022).
Sul tema della quantificazione dei danni in oggetto, in particolare con riguardo al danno terminale ed al danno catastrofale, si è a lungo discusso se dovessero essere calcolati e liquidati disgiuntamente. Il succitato arresto della Corte di cassazione ha chiarito che essi vanno intesi quali voci di danno autonome e differenti e che la loro liquidazione deve tenere conto sia del valore del danno biologico terminale, desunto dalle tabelle per l’inabilità permanente, sia di quanto dovuto a ristoro del pregiudizio morale catastrofale. La somma, inoltre, deve essere adeguatamente personalizzata, in considerazione dell’entità e dell’intensità dalla lesione.
È bene ribadire che, per quanto attiene alla sussistenza – e trasmissibilità iure successionis – del danno biologico terminale è necessario che la morte non sia stata immediata, mentre non è richiesta la lucida consapevolezza dell’imminente decesso, requisito, quest’ultimo, invece, imprescindibile ai fini del riconoscimento del danno catastrofale.
Infine, merita conto precisare che possono validamente richiedere le suddette poste di danno iure successionis, soltanto quei congiunti che, chiamati all’eredità, l’abbiano accettata; in caso di rinuncia all’eredità, la richiesta risarcitoria dei danni in parola è, infatti, preclusa.
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2) I danni iure proprio
Passando in rassegna la categoria dei danni iure proprio dei congiunti del danneggiato, la giurisprudenza, accanto alla configurabilità dei tradizionali danni biologici e morali, ha identificato una terza categoria di danno, conseguente alla perdita del rapporto parentale.
Innanzitutto, a seguito della morte di un parente o di una persona cara, è riconosciuto ad un soggetto il diritto di richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale di natura biologica o morale. Affinché sia configurabile un danno biologico, è d’uopo provare l’esistenza di una patologia psichica cagionata dall’evento, mentre la sofferenza morale soggettiva, sia essa un turbamento d’animo o un dolore intimo sofferto, qualora non si trasformi in una patologia, si configura quale danno morale soggettivo.
È stata, poi, sviluppata la categoria del danno da perdita del rapporto parentale che si collega non già alla lesione del diritto costituzionale alla salute (art. 32 cost.), ma alla dimensione dinamico-relazionale della persona lesa dalla perdita della persona cara e, dunque, al vuoto “esistenziale” lasciato dalla scomparsa di un componente del nucleo familiare, con conseguente offesa di diritti e principi di rango costituzionale.
Tale danno va, infatti, oltre alla mera sofferenza interiore e soggettiva e si identifica nella mancanza del congiunto, nel non potere più godere della sua presenza, nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione e sulla rassicurante quotidianità dei rapporti familiari. Il rischio di una duplicazione risarcitoria per la contemporanea liquidazione del danno morale viene scongiurato dalla Corte di cassazione osservando che il danno da lesione del vincolo parentale:
“va al di là del crudo dolore che la morte in sé della persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio e tra fratello e fratello, nell’alterazione che una scomparsa del genere produce anche nelle relazioni tra i superstiti”.
L’onere probatorio consiste, dunque, nella necessaria dimostrazione dell’esistenza di un rapporto parentale che almeno per la cd. “famiglia nucleare” è largamente presunto, dovendosi, concretamente, solo provare elementi ulteriori volti a giustificare la richiesta di una specifica personalizzazione del risarcimento.
Ai parenti non rientranti nella famiglia in senso stretto, o ai conviventi more uxorio, la giurisprudenza riconosce il diritto al risarcimento per il danno da perdita del rapporto parentale, ma impone oneri probatori più stringenti; devono, infatti, essere forniti al giudice elementi istruttori che giustifichino la “qualità ed intensità” della relazione affettiva lesa.
Nel luglio 2022, la Corte d’appello di Milano ha pubblicato la Tabella Milanese aggiornata in materia di liquidazione del danno da perdita parentale. Il modello supera l’impostazione precedente, che delegava al giudice la stima del danno secondo una valutazione equitativa entro dei parametri risarcitori minimi e massimi. La nuova tabella introduce, invece, una liquidazione a punti (riprendendo il modello già assunto dalla Tabella di Roma), che tiene conto dell’età della vittima primaria, del legame familiare della/e cosiddetta/e vittima/e secondaria/e, della convivenza tra le due, della sopravvivenza di altri congiunti, della qualità ed intensità della specifica relazione affettiva.
Le due Tabelle (Roma e Milano), avendo assunto un comune metodo di liquidazione “per punti”, tendono a somigliarsi, tuttavia, come ha rilevato una recente pronuncia di merito (Trib. Torino sez. IV, 27 novembre 2022), permangono una serie di differenze relative al valore base del punto ed alla previsione, nella tabella Milanese, del c.d. criterio E, corrispondente alla “qualità e intensità della relazione affettiva”, che assurge a parametro “soggettivo” e che rende necessario l’apprezzamento del giudice. La presenza di tale criterio, del resto, è da ritenersi la differenza fondamentale tra i parametri adottati da Roma e da Milano, in quanto, per il resto, le tabelle sono accomunate dagli altri quattro indicatori. Anche la Corte di cassazione, pronunciandosi sulle due Tabelle e dato atto della riformulazione di quella Milanese, ne ha confermato la piena validità, identificando, quale unico elemento distintivo, il suddetto paramento soggettivo relativo alla “qualità e intensità della relazione affettiva” (Corte Cass., sez. III, 16 dicembre 2022, n. 37009).
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Leggi anche: Tabelle di Milano pag. 77