Giurisprudenza e ICA
Che le infezioni correlate all’assistenza (d’ora in poi ICA) siano un problema sanitario mondiale è assai noto.
Sul piano clinico, il contrasto alla diffusione dei patogeni con spettri di resistenza antibiotica è obbiettivo prioritario e condiviso a livello internazionale, con specifici programmi di prevenzione (vedi PNCAR), il cui scopo principale è contenere un rischio che, ormai, si ritiene non possa essere più eliminato completamente.
Sul piano giurisprudenziale, il tema delle ICA ha ormai generato una dicotomia interpretativa tra interessi contrapposti; da un lato i soggetti danneggiati che agiscono contro le aziende sanitarie per rivalersi del danno subito a seguito di un’ICA, dall’altro le aziende sanitarie che provano ormai invano a difendere la loro posizione nei confronti di un problema che, a causa della sua estrema complessità, diventa difficile da comprendere appieno.
In questo sistema, la Cassazione interviene a tratti fornendo la sua personale interpretazione del problema secondo le regole generali del diritto civile.
Le critiche a tale interpretazione, ritenuta dai più eccessivamente colpevolista nei confronti delle aziende sanitarie e carente sotto il profilo della conoscenza scientifica, sono sempre più diffuse. Tuttavia, non sembrano essere mai stati compresi fino in fondo i limiti entro cui si dovrebbe circoscrivere un giudizio di assoluzione, soprattutto se si considerano i presupposti del diritto civile nei confronti dei diritti inviolabili che tutelano i soggetti danneggiati.
Ma la Cassazione ha capito davvero cosa sono le ICA?
Sorgono dunque spontanee due domande: vi sono modalità alternative con cui tradurre in chiave giuridica le problematiche cliniche della gestione delle ICA? E, cosa ancora più importante, il mondo giuridico (e, più precisamente, la Cassazione), ha davvero compreso quali sono i limiti della gestione delle ICA?
Afferma il Palomar di Calvino, “Il problema è capirsi. Oppure nessuno può capire nessuno: ogni merlo crede d’aver messo nel fischio un significato fondamentale per lui, ma che solo lui intende; l’altro gli ribatte qualcosa che non ha relazione con quello che lui ha detto; è un dialogo tra sordi, una conversazione senza né capo né coda. Ma i dialoghi umani sono forse qualcosa di diverso?”.
Partiamo dalla nota pronuncia della III sezione civile della Cassazione (n. 6386), risalente al marzo 2023, che tanto ha fatto discutere in questi ultimi mesi.
Ad una prima lettura, la sentenza affronta un tema – quello della prova richiesta al debitore per andare assolto da responsabilità – analizzando un caso in cui la gestione del rischio infettivo non sembra avere granché rilievo (si tratta di una donna sottoposta ad intervento oculistico il cui decorso clinico si complica per un trauma contusivo da caduta con ematoma, che va incontro a sovrainfezione fatale, per cui viene contestata la gestione diagnostico-terapeutica).
I due punti cruciali su cui occorre soffermarsi sono la tipologia del patogeno coinvolto – Staphylococcus aureus meticillino resistente (MRSA) – e le allegazioni ritenute necessarie per dimostrare di aver correttamente adempiuto nella prevenzione del rischio.
La Cassazione, nel discutere di un caso di infezione “contratta” in ambito ospedaliero, sta ribadendo come dal punto di vista difensivo non sia stato dimostrato quanto necessario per escludere una responsabilità che, è chiaramente specificato, non ha alcuna natura oggettiva e si basa su un classico presupposto contrattuale.
Infezione o contagio?
Il presente contributo ha lo scopo di riconsiderare dal principio il problema delle ICA, proponendo un’ottica difensiva alternativa in grado di presentare il problema sotto una diversa luce e che possa fornire un valido strumento tecnico per l’avvio di un dialogo costruttivo sul piano giuridico.
Partiamo dal chiarire che, nei casi di ICA, il vero punto su cui riflettere non è l’infezione in sé e per sé, ma il contagio. L’infezione non è altro che la manifestazione clinica che sottende il vero elemento contestabile, il contagio – che è il momento in cui un paziente entra in contatto con un determinato patogeno – per il quale viene ipotizzato un profilo colposo da presunta violazione delle norme di prevenzione del rischio di trasmissione.
La semplice classificazione dell’infezione come “nosocomiale” non assume alcun rilievo pratico, poiché si fonda su un presupposto meramente cronologico (si definiscono nosocomiali quelle infezioni acquisite durante un ricovero, non presenti o in fase di incubazione al momento dell’ingresso in ospedale, o insorte in seguito alla dimissione ma riferibili per tempo di incubazione al ricovero stesso[i]), non prende in considerazione il vero presupposto di responsabilità contrattuale, ovverosia il profilo colposo del contagio.
ICA non infezioni nosocomiali
Oggi si parla di ICA, e non di infezioni nosocomiali, perché l’emergenza è diffusa a livello mondiale (e, occorre dirlo, l’Italia è tra i paesi in cui si registra un taso di diffusione tra i più elevati), ma questo lascia intendere che i patogeni non circolino all’interno di un singolo ospedale, bensì in comunità, proprio perché acquisiti nel passaggio tra varie strutture (sia ospedaliere che residenziali), o da soggetti che provengono dal territorio e che sono portatori sani di patogeni con spettri di resistenza antibiotica.
Lo spettro di resistenza antibiotica è un fenomeno che interessa ormai chiunque (anche soggetti che non sono mai entrati in contatto con strutture ospedaliere) e che riconosce diverse cause, prima fra tutte l’assunzione non controllata di terapie antibiotiche, fenomeno che tutt’oggi è duramente contrastato dalla comunità scientifica[ii]. Una terapia antibiotica, soprattutto se non necessaria, può portare allo sviluppo di una specifica resistenza di un patogeno ubiquitario nell’organismo umano (residente nella flora batterica intestinale, nel tratto respiratorio, nelle vie uro-genitali, ma anche a livello cutaneo) che, in caso di successiva slatentizzazione, può dar luogo ad un’infezione non trattabile con quella specifica classe di farmaci.
Sulla base di quanto appena considerato possiamo affermare che un’infezione cronologicamente sviluppata nel contesto di un ricovero, così come un’infezione da patogeno con spettro specifico di resistenza antibiotica, non contraddistinguono in automatico una responsabilità contrattuale di un’azienda ospedaliera.
Per riflettere sulla provenienza del patogeno, non resta che riferirsi unicamente al contagio e alle modalità con cui esso può avvenire.
Nell’ipotesi “colposa”, la trasmissione avviene solitamente “per contatto”, con passaggio da un paziente contagiato ad un altro paziente non contagiato (che, in seguito, manifesta l’infezione) attraverso un operatore sanitario che non rispetta le misure di prevenzione del rischio.
Nell’ipotesi alternativa, il paziente sviluppa un’infezione da un patogeno già residente nella sua flora microbica endogena, senza che questo venga trasmesso dall’esterno, a causa di una condizione di transitoria immunodepressione (per patologia, per substrato patologico, per intervento chirurgico, etc.).
Per fare un esempio: le infezioni da Klebsiella
Prendiamo a questo punto in esame un patogeno tipicamente coinvolto nelle ICA.
I microrganismi appartenenti al genere Klebsiella sono batteri Gram-negativi della famiglia delle Enterobatecteriaceae normalmente presenti nella mucosa del tratto intestinale dell’uomo o degli animali come commensali (in pratica sopravvivono in grazie ad una simbiosi dove solo uno degli organismi trae benefici, mentre l’altro non ha né vantaggi né danni), ma in natura si possono considerare come microorganismi ubiquitari.
Nell’ambito delle ICA sono molto note in quanto possono produrre beta lattamasi a spettro esteso (Klebsiella pneumoniae ESBL) o carbapenemasi (KPC), enzimi che garantiscono una resistenza specifica alle principali molecole antibiotiche utilizzate per contrastarle dal punto di vista terapeutico (beta lattamici e carbapenemi)[iii].
La resistenza si può sviluppare nel corso di una terapia antibiotica effettuata per altro motivo. Un soggetto che assume un beta-lattamico (ad esempio amoxicillina) può sviluppare una resistenza specifica per quella classe di antibiotici su un ceppo di klebsiella presente nella sua flora batterica endogena. Oppure, in caso di ricovero ospedaliero per problematica clinica severa che richieda una terapia antibiotica specifica con carbapenemi (ad esempio meropenem), un ceppo intestinale di klebsiella può sviluppare una specifica capacità di produrre carbapenemasi. In entrambi i casi, una successiva slatentizzazione di questi patogeni (anche a distanza di tempo) potrà dar luogo ad un’infezione per cui qualsiasi terapia con beta lattamici o carbapenemi sarà da considerarsi inefficace.
Essendo la Klebsiella altamente diffusa, soprattutto in determinati reparti ad alta intensità di cure (terapie intensive, cardiochirurgie, rianimazioni), sono state nel tempo elaborate specifiche procedure di prevenzione del rischio di trasmissione paziente-paziente.
I principali riferimenti normativi risalgono agli anni ’90[iv] [v] [vi] [vii] e contemplano il ruolo centrale del Comitato per la lotta alle Infezioni Ospedaliere (C.I.O.), le cui attività di sorveglianza e controllo possono essere così sintetizzate: monitoraggio attraverso screening (con tamponi) di tutti i pazienti in ingresso, isolamento in caso di positività per specifici patogeni sentinella, antimicrobial steweardship (l’insieme delle procedure previste per migliorare l’utilizzo di antibiotici all’interno delle strutture), elaborazione ed attuazione di specifiche misure per ridurre il rischio di contagio (tra queste, in particolare, l’utilizzo di gel idralcolico, il cui uso entro determinate quantità sottende una corretta e puntuale pratica di lavaggio delle mani da parte del personale sanitario).
Il presupposto che giustifica l’attività di sorveglianza e controllo è che in una struttura assistenziale dove esiste un rischio di contagio si abbia contezza della diffusione di patogeni con specifiche resistenze antibiotiche e si dispongano specifiche azioni per contenere il rischio di trasmissione.
E in ottica giuridica?
A questo punto possiamo procedere ad analizzare il problema in ottica giuridica.
In un soggetto ospedalizzato, che sviluppa un’infezione da patogeno con specifica resistenza antibiotica, possono sussistere due spiegazioni causali alternative: da un lato una trasmissione paziente-paziente tramite operatore sanitario, dall’altro una slatentizzazione di un patogeno già presente nella flora batterica endogena in epoca preesistente al ricovero. Nel primo caso sussiste un’ipotesi di responsabilità contrattuale, nel secondo caso un’ipotesi di evento non altrimenti evitabile per cui questa potrebbe essere esclusa.
In caso di giudizio, un’azienda sanitaria dovrebbe essere chiamata a produrre il dato relativo all’attività di sorveglianza e controllo, ricostruendo a posteriori quanti e quali pazienti fossero contagiati dallo specifico patogeno responsabile del danno al paziente per cui si sta procedendo.
Per fornire un esempio pratico, si consideri sempre l’ipotesi di un soggetto deceduto per sopravvenuta sepsi da KPC.
L’azienda sanitaria sarà chiamata a dimostrare se, nello stesso periodo in cui quel soggetto era ricoverato, vi fossero altri pazienti infettati o colonizzati dallo stesso tipo di patogeno (con la stessa tipologia di resistenza antibiotica); potendo, in caso negativo, sostenere che si sia trattato di un contagio inevitabile, poiché di provenienza endogena, da patogeno residente nella flora batterica del paziente deceduto che aveva sviluppato, in modo indipendente, una specifica resistenza antibiotica.
Come poter dimostrare da parte dell’Azienda Ospedaliera l’adempimento dei suoi obblighi nei casi di ICA
Come dimostrare di aver correttamente adempiuto?
L’elaborazione di una valida tesi difensiva potrà fondarsi su alcuni presupposti:
- La produzione in forma cartacea delle procedure di contrasto alle infezioni, intese come semplici check list, resta fine a sé stessa, poiché da sola non costituisce prova della loro applicazione; anzi, in un caso di ICA, questa andrebbe, semmai, dubitata in via presuntiva.
- Il corretto adempimento potrà essere sostenuto laddove sia allegata un’azione multidisciplinare da parte dell’azienda (con specifica azione degli organi preposti al contrasto alla diffusione delle ICA) finalizzata a contenere il rischio di contagio da patogeni sentinella, eventualmente fornendo la prova di aver ridotto la quota di infezioni da un anno all’altro.
- La produzione dei dati di sorveglianza e controllo, al fine di valutare quali pazienti possano essere stati potenziali vettori per il paziente oggetto della valutazione. Escludendo, in caso di assenza di altri soggetti portatori per lo stesso patogeno, una trasmissione paziente-paziente e sostenendo quindi l’ipotesi più probabile del contagio endogeno non altrimenti evitabile.
- L’elaborazione di un quesito specifico, che dovrà necessariamente discostarsi da quelli standard previsti nei vari tribunali (a meno che non ne sia stato elaborato uno ad hoc per i casi di ICA), o che, in ogni caso, preveda l’integrazione di quelli proposti da controparte, inserendo la tematica specifica dell’evitabilità del contagio, più che dell’infezione intesa in senso puramente cronologico. Prevedendo l’indicazione della nomina di un collegio tecnico che dovrà essere composto da consulenti specialisti adeguati e preparati sul tema.
L’impressione è che una simile linea difensiva, se puntualmente recepita, potrebbe estendere il perimetro del contradditorio, comprendendo le specifiche problematiche che contraddistinguono la gestione del rischio infettivo correlato all’assistenza. Soprattutto nel momento in cui dovesse giungere all’attenzione della Cassazione.
Qualche riflessione di natura economica
Su quest’ultimo punto occorre, però, esprimere una premessa riflessiva di carattere economico.
Portare un caso all’attenzione della Cassazione comporta un rischio di esposizione economica molto elevato, poiché la decisione preclude ogni possibilità di definizione conciliativa o stragiudiziale della vertenza.
Ad oggi, un sinistro per ICA in cui sia riconosciuta una responsabilità (dal punto di vista tecnico o giuridico) per il semplice verificarsi dell’infezione nel contesto di un ricovero, senza riflettere su quanto finora considerato (cosa che la porta ai limiti della responsabilità oggettiva), rende pressoché certo il rischio di soccombenza.
La scelta di resistere in giudizio e portare all’attenzione della cassazione il problema delle ICA sotto un’ottica differente richiederebbe un investimento antieconomico, poiché un’azienda ospedaliera – di concerto, o meno, con una compagnia assicurativa, a seconda della gestione del contenzioso prevista (fondo regionale, SIR, franchigia) – dovrebbe, in senso prospettico, immaginare un approccio metodologico comune finalizzato alla difesa ad extremum di tutti quei casi giudicati sostenibili da un punto di vista difensivo, senza tuttavia avere margini di garanzia circa un possibile accoglimento della tesi proposta. Con l’indubbia conseguenza, in caso di definitiva soccombenza, di veder incrementare sensibilmente gli importi risarcitori di ogni singolo sinistro portato fino in Cassazione.
Dal punto di vista contabile (posto che, quasi sempre, un risarcimento prevede che siano utilizzati soldi dell’erario), non sembra esserci alcun rischio di responsabilità amministrativa, dal momento che il maggior esborso sarebbe giustificato da un rischio calcolato a priori, secondo una logica di gestione del sinistro ancorata ad un valido presupposto tecnico e alla prospettazione ex ante di un potenziale risparmio in caso di giudizio favorevole.
Un più corretto dialogo tra mondo giuridico e clinico sulle ICA
Al momento, ritengo che l’unico obiettivo sia quello di portare all’attenzione il problema delle ICA sotto una diversa luce per avviare un dialogo proficuo e costruttivo tra mondo giuridico e mondo clinico, fornendo, sul piano tecnico, punti di vista differenti per facilitare la comprensione di un problema altrimenti troppo complesso.
Come premessa, va detto, occorrerebbe trovare (o creare) una piattaforma su cui dialogare, che favorisca un avvicinamento tra il mondo medico (e medico-legale) e il mondo giuridico, altrimenti tra loro contrapposti e difficilmente conciliabili in termini di interesse accademico.
ICA: e il modello indennitario?
Sia concessa una riflessione conclusiva sul tema delle ICA.
La complessa gestione del rischio infettivo rende ormai inevitabile un confronto a livello istituzionale che affronti il tema della sua allocazione in termini di assicurabilità (il termine va inteso nella sua accezione più generica).
Dal punto di vista scientifico è noto come l’elaborazione e l’adozione, sia a livello nazionale che internazionale, dei piani per la prevenzione delle ICA abbia reso possibile il contrasto alla diffusione del fenomeno in misura del tutto contenuta, con valori percentuali compresi al massimo nel range 35-55%[viii]. Ciò significa che la maggior parte degli eventi resta ancora oggi non prevenibile, in quanto correlata maggiormente a fattori esterni e indipendenti (intrinseci al paziente o legati al trattamento sanitario stesso), sui quali non è possibile intervenire.
Se oggi possiamo tranquillamente ammettere che non tutti i casi di ICA esitano in una richiesta risarcitoria (anzi, fortunatamente, solo una quota marginale), non dobbiamo, comunque, tralasciare che quelli affrontati in giudizio portano a soccombere in via pressoché esclusiva le sole aziende sanitarie, con l’indubbio rischio che la dimensione economica del problema è destinata nel tempo a raggiungere livelli insostenibili per l’intero sistema (locale, regionale e nazionale).
Questo porta inevitabilmente a riflettere sull’opportunità di introdurre un meccanismo alternativo di gestione delle controversie (invero, già da diversi anni sponsorizzato a più riprese), basato su un principio indennitario, sulla falsa riga del modello che dal 2002 è stato introdotto nel territorio transalpino (cit. Loi Kouchner[ix]).
Non è questo il luogo e il momento di discutere sulla costituzionalità della proposta, ma di sicuro la medicina legale potrebbe essere chiamata a fornire un contributo tecnico prezioso per garantire il corretto approccio metodologico al problema.
Bibliografia
[i] Circolare del Ministero della Sanità, 20 Dicembre 1985, n. 52: “Lotta contro le infezioni ospedaliere”
[ii] Piano Nazionale di Contrasto all’Antibiotico-Resistenza (PNCAR) 2022-2025. Istituto Superiore di Sanità
[iii] https://www.epicentro.iss.it/antibiotico-resistenza/ar-iss-rapporto-klebsiella-pneumoniae
[iv] Circolare del Ministero della Sanità, 30 Gennaio 1988, n. 8: “Lotta contro le infezioni ospedaliere: la sorveglianza”.
[v] D.M. Sanità. 13 Settembre 1988: “Determinazione degli standards del personale ospedaliero”.
[vi] [19] D.P.R. n. 384 del 28 Novembre 1990, Art. 135: “Commissioni per la verifica e la revisione della qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie”, comma 6, lettera m: “valutazione di progetti di metodologie per la prevenzione delle infezioni ospedaliere”.
[vii] [20] D.L. 30 Dicembre 1992, n. 502: “Riordino della disciplina in materia sanitaria”, art. 10 “Controllo di qualità”.
[viii] The preventable proportion of healthcare-associated infections 2005-2016: Systematic review and meta-analysis. Infect Control Hosp Epidemiol. 2018 Nov;39(11):1277-1295
[ix] L. 4 mars 2002, n. 2002-303 “relative aux droits des malades et à la qualité du système de santé”.