La Corte di Cassazione attraverso la sentenza del 19 novembre 2024 n. 29815 (Presidente Travaglino, relatore Cirillo), chiarisce un suo pensiero, già noto, ma evidentemente poco conosciuto viste le continue richieste di tener conto dell’argomento sul quale gli Ermellini erano chiamati a rispondere.
Ovvero: il danno non patrimoniale in soggetti con grave invalidità deve essere liquidato non in relazione all’aspettativa di vita anche quando quest’ultima è stata fortemente ridotta dallo stesso evento dannoso?
Il fatto
In primo grado, una volta acquisita una CTU medico-legale, il Tribunale condannò un’azienda ospedaliera per una grave invalidità (92 %) conseguita all’errato espletamento di un parto stante la sofferenza ipossico-ischemica cerebrale patito dal nascituro, liquidando il danno biologico nella sua completezza derivata dal consueto utilizzo tabellare nonché il danno ai familiari in relazione alle sofferenze patite conseguite allo stato del minore. Il danno patrimoniale veniva però liquidato, sulla base di una dichiarazione dei CTU che avevano sostenuto che il soggetto, in seguito alle lesioni subite, aveva un’aspettativa di vita molto ridotta (massimo fino ai 30 anni).
La Corte di Appello, ricalcolava il danno non tenendo conto della ridotta aspettativa di vita aumentando sia la liquidazione dei danni ai famigliari per la perdita parentale sia il danno patrimoniale da corrispondere per la perdita della capacità lavorativa e per l’assistenza fornita dai genitori alla piccola invalida.
Le doglianze di parte convenuta
Parte convenuta (ovvero l’azienda ospedaliera) ricorreva in Cassazione sostenendo, nel primo motivo di ricorso, che la ridotta aspettativa di vita portava forzatamente a riparametrare la liquidazione complessiva del danno biologico in contrasto con le precedenti decisioni della Cassazione sul danno cosiddetto latente (sentenza 27 settembre 2021 n. 26118) che sì costituiva una voce autonoma di danno di cui medico-legale doveva tener conto ma dall’altro avrebbe anche lui dovuto essere riparametrato sulla scorta delle ridotte aspettative di vita.
Le decisioni della Suprema Corte
La Cassazione affrontava la decisione rifacendosi a precedenti giurisprudenziali.
I precedenti giurisprudenziali
Da un lato la sentenza del 9 maggio 2000 n. 5881 aveva sostenuto che “nella liquidazione del danno alla salute la scelta del valore monetario del punto d’invalidità deve essere effettuata senza tenere conto della minore speranza di vita futura che il danneggiato potrà avere, in conseguenza del sinistro; ciò in quanto, diversamente operando, il danneggiante verrebbe a beneficiare di una riduzione del risarcimento tanto maggiore quanto più grave è il danno causato“.
Dall’altro, però, la sentenza 4 novembre 2003, n. 16525, affermò che ove la prognosi di speranza di vita per il danneggiato sia accertata sulla base di conoscenze scientifiche (ad esempio, tramite consulenza tecnica), il giudice di merito “deve liquidare il danno biologico non con riferimento alla speranza di vita media nazionale, ma alla prognosi di durata della vita dello specifico soggetto danneggiato“. Ciò non avrebbe dato alcun vantaggio al danneggiante in quanto “il risarcimento del danno biologico ha una funzione solo di riparazione e di reintegrazione degli effettivi pregiudizi subiti, e quindi è strettamente connesso alla durata nel tempo di detti pregiudizi da parte del danneggiato“.
La svolta nella sentenza 26118 del 2021
La decisione odierna degli ermellini si ricollocava su di un altro piano, in quanto, secondo loro, la sentenza 27 settembre 2021 n. 26118 dimostrava che le due posizioni differivano in modo soltanto apparente. Infatti, secondo quest’ultima decisione aveva rilevato che tra i postumi permanenti causati da una lesione alla salute “rientra anche il maggiore rischio di una ingravescenza futura“, inquadrando tale forma dannosa nella figura del c.d. danno o rischio latente. Tale forma di danno, secondo la citata precedente decisione, “consiste nella possibilità, oggettiva e non ipotetica, che l’infermità residuata all’infortunio possa improvvisamente degenerare in un futuro tanto prossimo quanto remoto, e differisce dal mero peggioramento dipendente dalla naturale evoluzione dell’infermità” e, in più, che “il patire postumi che, per quanto stabilizzati, espongano per la loro gravità la vittima ad un maggior rischio di ingravescenza o morte ante tempus costituisce per la vittima una lesione della salute“.
La decisione finale sul punto della Suprema Corte
Proprie sulla base di queste considerazioni, confermate anche da una sentenza della Sezione Lavoro 1 dicembre 2022, n. 35416), a cui si aggiungeva anche, sempre richiamando la sentenza del 2021, che, qualora il CTU non avesse tenuto conto del danno latente, come in questo caso, di ciò dovrà tener conto il giudice “maggiorando la liquidazione in via equitativa: e nell’ambito di questa liquidazione equitativa non gli sarà certo vietato scegliere il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima: e dunque in base alla vita media nazionale, invece che alla speranza di vita del caso concreto“.
Dunque, in questo caso, la Suprema Corte rigettava il ricorso stabilendo che “il quadro patologico evidenziato dalla sentenza impugnata, caratterizzato dalla presenza di gravissime patologie, del tutto prive di ogni possibilità di guarigione, cui si collega un’elevatissima percentuale di invalidità permanente (92,5 per cento) siano di per sé elementi decisivi per respingere il motivo in esame, perché si è in presenza di un divario massimo tra le statistiche di vita media e la concreta aspettativa di vita di Ze.Di. E non è pensabile che in una situazione del genere, nella quale ci sono ridottissimi margini di aumento della percentuale di invalidità, il danneggiante possa trarre addirittura vantaggio dall’incredibile gravità del danno arrecato“.
Gli altri motivi di ricorso
Per quanto riguarda i successivi ricorsi proposti da parte convenuta, di grande interesse peraltro anche nella pratica comune nell’ambito del risarcimento del danno sui soggetti macrolesi (danno alla capacità lavorativa generica, danno legato all’erogazione dell’assistenza da parte dei famigliari, danno da perdita parentale) comunque tutti rigettati si rimanda alla lettura integrale della sentenza.
La sentenza
Qui sotto potete leggere e scaricare l’intera sentenza: