Continuiamo il nostro viaggio sulle patologie e i curiosi aspetti, anche medico-legali, che incredibilmente costellano la vita di alcuni grandi musicisti: questa volta è il turno di Niccolò Paganini, il violinista del diavolo.
Nicolò Paganini resta il più straordinario violinista della storia della musica. Leggendaria la sua capacità esecutiva ed espressiva, geniale e innovativa la sua composizione, immenso il suo talento. E nulla di ordinario caratterizzò pure la sua persona e la sua storia di vita, finanche dopo che egli ebbe esalato l’ultimo respiro. Ma fu davvero il “violinista del diavolo” o solo un uomo in costante lotta con la fragilità del proprio corpo?
Paganini: la prima vera “star” della storia della musica

Era chiamato il “violinista del diavolo” per l’abilità esecutiva che solo colui che scende a patti con il demonio può possedere. Ma non solo. L’aspetto, gli atteggiamenti e gli eccessi di Paganini contribuirono a conferire all’appellativo “demoniaco” sempre maggiore sostanza. I suoi contemporanei così lo descrivono: “…Ha il viso di un dragone. Fronte alta, larga e quadrata, naso aquilino, bocca maliziosa, orecchie ampie e sporgenti e staccate, capelli lunghi e neri, in contrasto con pallore dell’incarnato..”. È magro e allampanato e, ad accentuare la drammaticità del suo personaggio, i suoi abiti sempre neri e i suoi occhiali con le lenti blu. Ma è quando suona che dà il meglio di se: si agita, si contorce come un invasato, dando vita ad una musica che finisce per “possedere” chi ha la fortuna di assistere ad una sua esecuzione. Spazia dalla più profonda sensibilità alla violenza estrema che gli fa rompere tutte le corde del suo Cannone – il violino Guarnieri del Gesù che suona per tutta la vita – per rimanere con l’ultima, quella di sol, su cui continua ad improvvisare. Insomma un vero divo del suo tempo che non solo affascina donne illustri – da Elisa Bonaparte a Mary Shelley – ma convince entusiasticamente anche i grandi musicisti dell’epoca. Da Rossini a Berlioz, da Beethoven a Listz, da Chopin a Schubert, tutti gli riconoscono la grandiosità del suo gesto esecutivo senza pari, la capacità di toccare livelli espressivi mai sperimentati prima e l’originalità delle sue composizioni che segneranno il passaggio dal classicismo al romanticismo.
Ma quale uomo si cela dietro l’artista?
Diverse evidenze storiche dimostrano che Paganini può contare su una mobilità delle sue articolazioni del tutto fuori dal comune: chi lo vede suonare scrive che le sue lunghe mani riescono a coprire senza difficoltà tre ottave e il suo pollice può flettersi fino ad arrivare a toccare il dorso della mano. In epoca successiva questa caratteristica, così come la sua costituzione fisica “sottile e dinoccolata”, sono state attribuite alla eccezionale lassità legamentosa determinata da una delle patologia del tessuto connettivo a carattere ereditario: la sindrome di Ehlers-Danlos o la sindrome di Marfan. Per certo Paganini non potè esserne informato poiché entrambe queste affezioni furono identificate sul finire del 1800, dunque a quasi mezzo secolo dalla sua morte.
In ogni caso, se di patologia si tratta, Paganini ha la capacità di trasformarla in una straordinaria abilità. Ed egli è fieramente cosciente ed orgoglioso del proprio virtuosismo che dichiara di sostenere grazie allo strenuo esercizio quotidiano: “Se non studio per un giorno me ne accorgo solo io, se non studio per due giorni se ne accorgono tutti.”
Fin da giovane e per molti anni Paganini si esibisce infaticabilmente, attraversando l’Italia e l’Europa, godendo a piene mani della popolarità che gli viene tributata. Accanto alla fatica del palcoscenico quella del piacere. Sono molte le avventure amorose, alcune anche molto scabrose, che lascia dietro di sé ma è solo una donna, Antonia Bianchi, a regalargli la gioia della paternità. Il figlio Achille è per Paganini l’affetto più grande e sincero che lo accompagna e lo conforta per tutta la vita.
Tuttavia, a far tempo dal 1820 il suo straordinario vigore comincia ad abbandonarlo. Una tosse incoercibile lo prostra e, già costituzionalmente magro, si fa ancora più emaciato. Un medico di Palermo gli consiglia il lassativo di Roob per liberare il corpo dai tossici. Il medico pavese Siro Borda, più influenzato dai costumi di Paganini che da oggettivi reperti clinici, gli diagnostica una sifilide latente e gli prescrive il mercurio, sia per assunzione orale che come unguento, nonchè l’oppio per sedare la tosse. Su questi presupposti le condizioni fisiche di Paganini non possono certo migliorare. Fra il 1823 e il 1828 il suo aspetto diviene, se possibile, ancora peggiore: il suo pallore è mortale ed è lo stesso Paganini a definirsi brutto. L’ossessione per il proprio stato di salute cresce e Paganini si sottopone ad estenuanti viaggi in carrozza attraverso l’Europa alla ricerca di medici e rimedi in grado di restituirgli la salute e l’energia. Si fa visitare dai luminari più illustri del tempo: Francoise Magendie, Samuel Hahnemann (il padre della omeopatia), Guillaume Dupuytren (già medico di Napoleone) e altri ancora.
L’intossicazione da mercurio
Nel 1828 Paganini raggiunge a Vienna l’amico dott. Benati, il quale, dopo una accurata ricostruzione anamnestica e con il consulto del dott. Miquel, esperto nell’uso dello stetoscopio, da poco introdotto da Laennec, lo rassicura sullo stato dei suoi polmoni che non recano traccia di tubercolosi. Nè da esperto laringologo e foniatra, evidenzia i segni della sifilide! Ma è lo stesso Benati a metterlo in guardia sulla causa più probabile del suo decadimento fisico: l’intossicazione cronica da mercurio. Di questo tossico Paganini presenta gli effetti derivati da una assunzione massiccia e prolungata: la perdita dei denti, l’intensa salivazione che evoca la continua espettorazione e dunque la tosse persistente, l’indebolimento della vista. Negli anni che seguono il quadro clinico diviene catastrofico. Da un ascesso dentario deriva un’osteomielite mandibolare che deve essere trattata chirurgicamente e Paganini deve mantenere una benda per tenere sollevata la mandibola. Le sue mani cominciano a tremare e il suo stato psichico si modifica significativamente, trasformandolo da un uomo aggressivo e sicuro di sé in un soggetto apatico e solitario, sempre più preoccupato di apparire in pubblico. Segue lo spegnimento della libido.
E non solo…
In tutto ciò Paganini continua ad assumere ogni rimedio che gli viene proposto, primi fra tutti i purganti, molti dei quali contenenti anche composti mercuriali. Il suo preferito è l’elixir di Le Roy a base di scammonea, turbitto vegetale, gialappa, senna e sali emetici quali l’antimonil tartrato di potassio (tartaro emetico). Facile comprenderne le conseguenze: oltre a debilitarlo, l’abuso quotidiano di queste sostanze irritanti e ad azione “erosiva” sulle mucose inducono la progressiva stenosi dell’esofago, del retto e dell’uretra. Paganini impiega ore per potersi alimentare ed è costretto a cateterismi vescicali. Infine diviene completamente afono e negli ultimi tempi della sua vita è costretto a comunicare mediante la scrittura.
Nizza, l’ultimo rifugio
Preoccupato per una seria controversia giudiziaria e ormai allo stremo delle forze, sul finire del 1839, Paganini si trasferisce a Nizza – all’epoca ancora terra italiana – nella speranza che il clima mite possa dargli giovamento. Ad accoglierlo nella sua casa è il conte Hilarione Spitalieri de Cassole, suo grande amico e suo grande estimatore. Dopo qualche tempo il conte trova per l’amico una residenza al 23 di rue du Governement (l’attuale rue de la Prefecture) dove l’artista si rifugia accudito dall’amorevole figlio Achille e dove si spegne solo qualche mese più tardi. Sulla facciata del palazzo una targa in italiano ancora oggi consente di leggere:
“poi che da questa casa volgendo il giorno XXVII di maggio del MDCCCXL lo spirto di Nicolò Paganini si ricongiunse alle fonti della eterna armonia giace l’arco potente di magiche note ma nelle aure soavi di Nizza ne vive ancora la dolcezza suprema.”
L’imbalsamazione: il metodo Gannal
Il Conte de Cassole dispone che il corpo di Paganini venga trasferito all’Hopital de Saint Roch per essere imbalsamato. A quel tempo è in voga il metodo di Gannal. Dopo aver partecipato a diverse campagne al seguito di Napoleone ed essere sopravvissuto alla battaglia di Waterloo, Jean-Nicolas Gannal, lavora come chimico e nel 1837 brevetta un liquido da utilizzare per la conservazione dei cadaveri. Il metodo prevede una semplice incisione al collo, in corrispondenza della arteria carotide, attraverso la quale inserire il liquido conservativo con l’ausilio di una pompa. Tuttavia nel 1845 la presenza di arsenico non gli consente di superare il confronto con il liquido creato dal suo concorrente, l’imbalsamatore J.P. Sucquet, a base di cloruro di zinco. Il limite del liquido conservativo di Gannal sarà superato da Thomas Holmes negli Stati Uniti: una volta rimosso l’arsenico sarà ampiamente utilizzato per la conservazione dei soldati caduti nella guerra di secessione americana.
Le mancate esequie
Dopo l’imbalsamazione la salma di Paganini è posta in due casse, una di zinco e una di legno di noce, con una lastra di vetro che ne consente l’esposizione del volto.
Paganini non può essere sepolto in terra consacrata perchè a causa di un “malinteso” occorso qualche giorno prima della morte con il prete, Don Caffarelli, inviato dal Vescovo, par che egli abbia rifiutato l’estrema unzione. Mentre il figlio Achille e molti illustri amici di Paganini si rivolgono al Re Carlo Alberto ed al Papa Gregorio XVI perchè il grande artista possa ricevere degna sepoltura, il feretro rimane nell’appartamento di Rue du Governement. Tuttavia, l’alone “demoniaco” che ammanta la figura di Paganini lo segue anche nella morte e alimenta le dicerie e le superstizioni intorno ai sui resti. Il feretro non più rimanere nell’abitazione e le autorità sanitarie ne impongono il trasferimento in idonea sede.
Nell’attesa che il processo ecclesiastico si compia, il conte dei Cessole decide di mettere il feretro al riparo dai curiosi e lo nasconde nella cantina della sua tenuta, nelle campagne di Nizza. A settembre il feretro è trasferito in un ex lazzaretto a Villefranche sur mer, utilizzato un secolo prima per la quarantena dei marinai. Il conte confida nel riserbo del guardiano, il solo ad avere la chiave della cappella. Dopo qualche tempo si accorge però che la salma è oggetto di un macabro pellegrinaggio a pagamento e ne dispone l’ennesimo spostamento, questa volta nella proprietà del conte Caïs de Pierlas, nella punta di Cap Ferrat.
A questo punto, fra storia e leggenda, si racconta che il figlio Achille abbia tentato di trasportare il feretro del padre a Genova, a bordo di una nave, ma le autorità genovesi avrebbero rifiutato lo sbarco, costringendo la goletta a fare ritorno in Francia. Vedendo respinto il feretro, sia a Marsiglia che a Cannes, Achille decide di depositare la bara in una sepoltura provvisoria sull’isola di Ferreol, a largo di Nizza. Qui il feretro sarebbe rimasto fino al 1844.
L’epilogo
Il 17 aprile del 1844, per intercessione del Re, è data facoltà di trasportare clandestinamente il feretro nel Casinetto di Romairone, proprietà del violinista, in frazione S. Biagio della Polcevera. Non è ancora consentita una sepoltura in terra consacrata. Ma anche qui i resti di Paganini generano sconcerto per i pregiudizi e le superstizioni ispirate dalla sua “empietà” e la bara deve essere spostata ancora una volta. Achille si rivolge a Maria Luigia d’Austria, vedova di Napoleone e grande ammiratrice di Paganini, la quale acconsente al trasferimento delle sue spoglie a Parma. Il feretro raggiunge così Gaione, dove Paganini aveva acquistato una villa nel 1833, e dove rimane nella sacrestia della chiesa per 32 anni, senza una croce e senza un nome.
Solo nel 1876 Papa Pio IX rende pubblico il verdetto con il quale la chiesa, già nel 1844, ha annullato il decreto del vescovo di Nizza e riabilitato l’artista. Quando a Parma è allestito il cimitero della Villetta, Achillino ottiene che il padre sia tumulato in una tomba appositamente costruita per lui, dove tutt’ora riposa. Il piccolo tempio dedicato alle spoglie di Paganini è decorato da un’aquila che tiene serrato nel becco un archetto.
In conclusione la storia ci consegna un’immagine di Paganini che è davvero quella di un “demonio” di talento e abilità ma restituisce pure il riflesso di un uomo in fondo fragile e debilitato anche a causa di una medicina che, nel suo tempo, non fu in grado di sostenerlo ma anzi contribuì al suo declino.
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