Abstract
La sentenza di Cassazione Penale n. 3336/2023 (Sez. V, Presidente Pezzullo, Relatore Catena del 22-11-2022) offre una visione “aggiornata” della figura dello specializzando, anche se il fatto nasce in seguito ad una accusa di falso materiale in cartella clinica imputato al medico strutturato. Basta spostare il punto di vista della lettura. Un articolo del nostro Davide Santovito e della Dott.ssa Claudia Viteritti (specialista in formazione dell’Università di Torino).
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La sintesi del processo
Nel 2017 il Tribunale condannava un medico strutturato in ginecologia ed ostetricia per il reato di falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 476 cp), in quanto aveva apposto alcune correzioni ed integrazioni all’interno della cartella clinica di una sua paziente già compilata da un medico in formazione mentre egli non era in turno. Tale annotazione faceva emergere i motivi clinici di urgenza per il quale aveva dato indicazione di anticipare il taglio cesareo prima della 39esima settimana di gravidanza, seppur contro linee guida al tempo vigenti nel suo reparto.
Il medico fece ricorso e nel 2022 la Corte di Appello assolse l’imputato dal reato a lui ascritto perché il fatto non sussisteva, affermando che, sebbene si riconosca l’autonomia delle annotazioni effettuate in sede di anamnesi dal medico in formazione, esse non sono ritenute annotazioni definitive, pertanto sono modificabili da parte di un medico di ruolo/strutturato.
Il Procuratore generale presso la Corte di Appello ricorse, a sua volta, in Cassazione, lamentando dei vizi di motivazione, tuttavia la Corte di Cassazione rigettò il ricorso ricordando che se il ginecologo “avesse rappresentato una situazione di urgenza non corrispondente ai dati clinici a sua conoscenza, egli avrebbe dovuto rispondere, oltre che di falso materiale, anche di falso ideologico, fattispecie che non risulta in contestazione, non essendo emerso alcun elemento da cui indurre tale circostanza”. Pertanto, ritenendo “impregiudicata l’eventuale rilevanza della condotta dell’imputato a livello disciplinare”, di conseguenza “l’impianto della sentenza impugnata – a prescindere dalla rilevata aporia argomentativa – appare del tutto coerente con i principi giurisprudenziali che questa Corte regolatrice ha pacificamente declinato in riferimento alla fattispecie in esame, nella sua peculiarità fattuale e circostanziale, accuratamente e logicamente analizzata dalla Corte territoriale”.
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Il fatto
Va premesso che, come risulta dal capo di imputazione, al ginecologo erano state ascritte plurime condotte di falso, aventi ad oggetto la cartella clinica di una sua paziente in stato interessante. In particolare, il medico aveva cancellato con correttore alcune parole relative alla diagnosi di ingresso ed a quella contenuta nel quadro riepilogativo.
Il ginecologo aveva, inoltre, inserito nella cartella clinica altre affermazioni quali “come in precedenza lamentato” e “sospetta deiscenza”, in relazione ai dati anamnestici sulla gravidanza e la frase “T.C. cesareo elettivo in III gravida II para 38 sett. e 1 giorno con doppio pregresso T.C. e deiscenza della cicatrice uterina”, in corrispondenza della diagnosi. Un altro inserimento riguardava il foglio informatico del registro operatorio, dove aveva aggiunto a penna la parola “deiscente”.
Il medico ammise le condotte contestategli, spiegando che la donna era una sua paziente in stato interessante, che, alla fine del mese di dicembre, era già stata ricoverata per perdite ematiche e dolori. In tale occasione egli non aveva potuto visitarla perché si trovava all’estero, ma aveva comunicato alla paziente che, al suo rientro, le avrebbe comunicato la data del taglio cesareo fissato successivamente per gennaio, data in cui la paziente non sarebbe giunta ancora alla trentanovesima settimana di gravidanza, non rispettando dunque le linee guida indicate dal primario.
Tuttavia, nel caso di specie, alla luce delle risultanze della cartella clinica relativa al primo ricovero (dicembre), sussistevano delle specifiche ragioni di urgenza che consigliavano l’esecuzione dell’intervento anche prima della trentanovesima settimana.
Il ginecologo spiegò inoltre che, nel corso dell’intervento di taglio cesareo, aveva mostrato agli operatori presenti che la cicatrice della paziente, conseguenza di due precedenti tagli cesarei, presentava una condizione di deiscenza. Tale condizione aveva cagionato le perdite ematiche ed i dolori lamentati dalla donna, determinando quindi la necessità di anticipare l’intervento. Una volta eseguito il taglio cesareo, il diario clinico era stato redatto da un medico in formazione presente all’intervento, secondo una prassi incontestata.
Successivamente, il chirurgo aveva esaminato il diario operatorio e la cartella clinica della paziente, a cui egli aveva accesso in quanto la predetta era ancora ricoverata, e si era reso conto che il medico in formazione aveva omesso di riportare la condizione di deiscenza della cicatrice da lui rilevata ed illustrata nel corso dell’intervento. Contattato il medico in formazione per integrare tale carenza, lo stesso aveva suggerito allo strutturato di modificare informaticamente il diario operatorio, inserendo la menzione omessa, cosa che egli aveva escluso, in quanto, in tal modo, il nuovo documento informatico avrebbe avuto una data diversa da quella in cui l’intervento era stato eseguito, per cui aveva ritenuto di apportare l’integrazione a penna sul documento originale, inserendo di suo pugno la parola “deiscenza“.
Quanto alle ulteriori modifiche, il medico ricordò di aver inserito le parole “perdite ematiche“, in quanto la paziente gli aveva riferito delle perdite che si erano verificate in occasione del viaggio in auto per recarsi in ospedale, in occasione del secondo ricovero ospedaliero, verificatosi in orario serale.
Tuttavia, egli si era accorto che, alla pagina seguente della medesima cartella, il medico in formazione presente all’atto del ricovero, che aveva redatto la cartella – e che non risulta identificato – aveva scritto che la paziente negava perdite ematiche, sicché egli aveva cancellato con il bianchetto la relativa dicitura, annotata alla pagina precedente.
La sentenza impugnata ha dato atto, quindi, come il ginecologo avesse ammesso anche le successive integrazioni, in coerenza con le specifiche circostanze della vicenda, avendo egli, in sostanza, l’interesse a far emergere le specifiche condizioni di salute della paziente, che lo avevano indotto a praticare il taglio cesareo in anticipo rispetto alla trentanovesima settimana di gravidanza e, quindi, in contrasto con le disposizioni impartite dal primario del reparto.
Il primario, a sua volta, confermò tali circostanze, dichiarando che effettivamente la deiscenza della cicatrice avrebbe costituito condizione per intervenire prima della trentanovesima settimana, ricordando di aver realizzato le difformità documentali dal raffronto tra l’originale della cartella e la copia da lui fatta acquisire nell’immediatezza dell’intervento e confermando, infine, la prassi di completare successivamente la cartella clinica di una paziente.
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Le motivazioni della Suprema Corte
Fin dall’inquadramento della vicenda, è evidente come le doglianze riguardino specificamente le annotazioni alla seconda pagina della cartella clinica, fondate sulla circostanza che pacificamente, all’atto del ricovero della paziente, nella tarda serata, il ginecologo non era presente in reparto, avendo egli concordato telefonicamente con la paziente la data del ricovero in funzione dell’intervento.
Già la Corte territoriale ha rilevato come – tenuto conto della prassi di far compilare la cartella clinica dai medici in formazione, alla luce dell’inquadramento giuridico della figura del medico in formazione specialistica – in riferimento ai falsi materiali relativi alla fase dell’intervento chirurgico, le relative annotazioni consistevano in mere integrazioni della documentazione clinica, non ancora uscita dalla sfera di disponibilità del medico strutturato, che, in ogni caso, quale responsabile della prestazione sanitaria, aveva ogni potere di verifica e di integrazione delle annotazioni stesse, materialmente poste in essere da uno “specializzando”, ma riferite alla prestazione da lui eseguita.
In particolare, la sentenza impugnata ha ricordato come:
“In linea con lo spunto testuale fornito dal comma 3 del citato art. 38, la dottrina e la giurisprudenza, anche costituzionale, parlano della progressiva e graduale acquisizione da parte degli specializzandi di competenze e responsabilità nell’ambito del programma di formazione, attraverso la partecipazione a tutte le attività mediche dell’unità alla quale sono assegnati, come di una ‘autonomia vincolata’. La loro attività, infatti, si svolge sempre sotto la vigilanza e il supporto formativo del tutor o comunque del medico strutturato col quale, di volta in volta, sono chiamati a collaborare”.
Al contrario – secondo il Procuratore generale – tale ragionamento non sarebbe riferibile all’annotazione relativa alla fase del ricovero, in quanto l’imputato, in quel momento, non era in reparto e, quindi, la cartella clinica era stata redatta da altro medico – strutturato o specializzando, non identificato -, che escludeva la possibilità per esso di intervenire sull’annotazione, o perché eseguita da altro medico strutturato o perché eseguita da un medico in formazione che, quindi, avrebbe dovuto riferire ad un tutor diverso dall’imputato che, pertanto, in entrambi i casi non aveva alcun titolo per intervenire sulle annotazioni relative all’anamnesi eseguita al momento del ricovero, fase alla quale egli non era presente, non avendo, pertanto, alcuna disponibilità della cartella clinica.
Premesso che non aver identificato l’autore della cartella clinica deriva da una carenza istruttoria, ad ogni modo questo involge un aspetto assolutamente fattuale della vicenda.
La Corte territoriale aveva chiaramente evidenziato – né il Procuratore generale ricorrente contesta tali emergenze processuali – come la donna fosse una paziente del medico imputato, da questi seguita già in epoca precedente il ricovero nel gennaio; che la donna non solo era già stata ricoverata presso la struttura nel precedente mese di dicembre per perdite ematiche e dolori, ma che la stessa aveva chiesto di essere visitata proprio dall’imputato, cosa che non era stata possibile in dicembre, in quanto il suddetto medico non si trovava in città in quel periodo; che, tuttavia, in quel contesto, proprio il suddetto ginecologo aveva riferito alla paziente che le avrebbe fatto sapere la data del ricovero dopo averla concordata con il responsabile del reparto, cosa che era poi avvenuta, essendo stato programmato poi l’intervento. Tanto è vero che la gravida si era ricoverata la sera precedente.
Il ginecologo, infine, aveva ricordato come proprio la paziente gli avesse riferito – evidentemente nel corso della degenza – delle perdite ematiche che ella aveva avuto nel viaggio in auto, nell’imminenza del ricovero. Peraltro, le perdite ematiche accompagnate da dolori erano state la ragione anche del precedente ricovero della paziente, alla fine del mese di dicembre, di cui pacificamente il medico era a conoscenza, tanto è vero che, proprio avendo appreso ciò dalla sua paziente, egli ne aveva ritenuto indispensabile il ricovero per procedere all’intervento chirurgico, concordando poi la data dello stesso con il responsabile del reparto.
Alla luce di tali circostanze appariva, quindi, difficile sostenere come non fossero riferibili alla responsabilità del ginecologo le vicende relative al ricovero della paziente in questione, la cui pianificazione era stata seguita personalmente dal predetto sanitario e la cui necessità era stata dallo stesso valutata alla luce di quanto appreso dalla paziente, la cui storia clinica egli ben conosceva per averla già in precedenza seguita.
In tal senso, quindi, la Corte territoriale aveva evidenziato tutte le circostanze alla luce delle quali ritenere logicamente riferibili all’imputato l’anamnesi riportata in cartella ed eseguita al momento del ricovero, seppur non esplicitando tale riferibilità.
Se, quindi, al momento del ricovero della donna le annotazioni in cartella fossero state eseguite da un medico in formazione – come affermato dall’imputato nelle sue dichiarazioni al pubblico ministero, benché egli non ne ricordasse il nome – il medico al quale dette annotazioni erano riferibili, alla luce del ragionamento della Corte di merito, andava individuato sicuramente nell’imputato, che aveva già predisposto il ricovero.
Evidentemente, quindi, la Corte di merito ha ritenuto attendibile la ricostruzione della vicenda effettuata dal sanitario anche sotto tale aspetto, ascrivendo ad un medico specializzando la effettuazione delle annotazioni in cartella all’atto di ricovero in reparto della paziente.
La critica svolta dal ricorrente, al contrario, sarebbe stata plausibile se fosse stato dimostrato che la paziente, all’atto del ricovero, fosse stata visitata da un medico strutturato in servizio in reparto, essendo, in tal caso, a tale sanitario riferibili le annotazioni. Come detto, tale circostanza non risulta in alcun modo provata, ma solo alternativamente ipotizzata dal Procuratore generale, che sembra dimenticare come le congetture non possono essere poste a fondamento di una sentenza di condanna.
Né, in ogni caso, sotto un profilo logico, può ritenersi che la riferibilità delle citate annotazioni richiedessero la presenza fisica del ginecologo strutturato al momento del ricovero, posto che egli ben conosceva le condizioni della sua paziente – né il ricorso opina diversamente sul punto -, tanto è vero che ne aveva predisposto egli stesso il ricovero, funzionale al taglio cesareo da praticarsi il giorno dopo, ritenendo che tale intervento chirurgico fosse indispensabile proprio per le ravvisate condizioni di urgenza.
Peraltro, proprio dalla documentazione clinica allegata al ricorso si evince inequivocabilmente che la cartella clinica indicasse – annotazione che non è oggetto di imputazione e, quindi, pacificamente non alterata – sia la tipologia di ricovero, “programmato”, sia il medico che avrebbe eseguito il taglio cesareo, ossia l’imputato.
Questi elementi permettono di ritenere insussistente, pure in relazione alle circostanze indicate nell’anamnesi di ingresso, la contestata fattispecie di reato, posto che il ricovero della donna non si fosse verificato in regime di urgenza – il che avrebbe, evidentemente, richiesto una diagnosi da parte di un medico strutturato, alla luce della vigente normativa – ma era stato programmato in base ad emergenze cliniche già valutate dal medico curante – ossia l’imputato -, la cui presenza fisica, in tale specifico contesto, non può essere ritenuta essenziale o dirimente per la riferibilità al predetto sanitario delle annotazioni riportate in cartella da un medico in formazione.
Rimane infine da mettere in chiaro il ruolo dei medici in formazione specialistica e il concetto di autonomia vincolata.
Gli Ermellini evidenziano, come già ricordato dalla Corte territoriale, che “La formazione del medico specialista implica la partecipazione guidata alla totalità delle attività mediche dell’unità operativa presso la quale è assegnato dal Consiglio della scuola, nonché la graduale assunzione di compiti assistenziali e l’esecuzione di interventi con autonomia vincolate alle direttive ricevute dal tutore, d’intesa con la direzione sanitaria e con i dirigenti responsabili delle strutture delle aziende sanitarie presso cui si svolge la formazione. In nessun caso l’attività del medico in formazione specialistica è sostitutiva del personale di ruolo“; non a caso, nella sentenza impugnata la Corte territoriale ha sottolineato il concetto di “autonomia vincolata” contenuta nel testo normativo.
In coerenza con tale inquadramento, quindi, la sentenza impugnata ha qualificato come compiti “di assistenza in autonomia quasi completa” la documentazione in cartella clinica, richiamando proprio la raccolta di anamnesi, verificatasi, nel caso di specie, da parte del medico in formazione non identificato al momento del ricovero programmato della paziente.
Nella sentenza della Cassazione, si ricorda la pronuncia n. 249 del 05/12/2018 della Corte Costituzionale, in riferimento ad una disposizione legislativa della regione Lombardia contrastante con l’art. 117, terzo comma della Costituzione.
Su tale specifico punto la Corte Costituzionale aveva ricordato che:
“La disciplina statale prefigura una progressiva autonomia operativa del medico in formazione, con la possibilità di eseguire interventi assistenziali, purché ciò avvenga con gradualità, in coerenza con il percorso formativo e comunque con la supervisione di un medico strutturato, preferibilmente il tutore (cosiddetta ‘autonomia vincolata’). D’altronde, pur volendo ritenere che non sia sempre necessaria la costante presenza fisica del tutor o di un medico di ruolo in ciascuna attività dello specializzando (cosa che neppure la legislazione statale prevede), l’autonomia di quest’ultimo non potrebbe comunque mai prescindere dalle direttive del tutore. In altri termini, l’art. 38, comma 3, del d.lgs. n. 368 del 1999 coniuga due principi: il principio dell’insostituibilità del personale strutturato da parte dello specializzando e quello della sua graduale assunzione di responsabilità e autonomia operativa.”
La Corte di Cassazione riconosce, quindi, come la sentenza di appello impugnata ha chiaramente condiviso tale inquadramento, alla luce dei quali ha operato la ricostruzione della vicenda processuale, in cui, proprio in applicazione di tali snodi, ha assolto l’imputato perché il fatto non sussiste.
Il complesso argomentativo nella sua interezza, pertanto, appare del tutto coerente.
Inoltre, anche alla luce del citato approdo della Corte costituzionale, è ulteriormente confermato che, ai fini della riferibilità al tutor delle attività svolte dal medico in formazione, non risulti affatto necessaria la costante presenza fisica del medico strutturato, non essendo ciò previsto dalla legislazione statale, posto che l’autonomia dello “specializzando” non potrebbe comunque mai prescindere dalle direttive del tutore.
Nel caso in esame, quindi, alla luce delle circostanze evidenziate in sentenza – e non contestate in ricorso – appare evidente come debba ritenersi dimostrato che la sola assenza fisica dell’imputato, al momento del ricovero programmato della sua paziente, sia irrilevante ai fini di provare la non riferibilità al predetto delle relative annotazioni in cartella.
Gli Ermellini hanno, peraltro, ritenuto necessario citare la Sez. 5, n. 55385 del 22/10/2018, secondo cui “Integra il reato di falso materiale in atto pubblico l’alterazione di una cartella clinica mediante l’aggiunta, in un momento successivo, di una annotazione, ancorché vera, non rilevando, infatti, a tal fine, che il soggetto agisca per ristabilire la verità, in quanto la cartella clinica acquista carattere definitivo in relazione ad ogni singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata.”.
In realtà, come si evince dalla lettura delle relative motivazioni, le annotazioni contenute in cartella erano state effettuate, e poi modificate, da un medico strutturato, ossia da un soggetto direttamente responsabile delle annotazioni medesime e, quindi, delle loro successive modifiche, immutazioni e alterazioni, costituenti pertanto altrettante falsificazioni.
A differenza di quanto verificatosi in tali vicende, quella in esame, come visto, presenta la peculiarità dell’essere state le annotazioni modificate dall’imputato poste in essere da un medico in formazione, sicché ciò che viene in rilievo non è il profilo – del tutto incontestato – della irrilevanza del fine, volto a ristabilire la verità, in funzione del quale il soggetto agisce, bensì la circostanza – chiaramente evidenziata dalla Corte di merito – che le specifiche modalità redazionali dei documenti sanitari in esame non avessero acquisito alcuna connotazione di definitività, in relazione alle singole annotazioni, nel momento in cui l’imputato vi aveva apportato le modifiche esaminate.
In sostanza, come emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, la cartella clinica contenente annotazioni materialmente redatte da un medico in formazione – sia in riferimento ad attività operatorie cui abbia assistito, sia in riferimento ad attività svolte nell’ambito della limitata autonomia prevista dalla normativa di settore, su indicazione o seguendo le direttive del tutor – non possono mai ritenersi definitive ed immodificabili prima del controllo del medico responsabile, bensì costituiscono un atto logicamente equiparabile ad una bozza, il cui autore formale può e deve essere ritenuto esclusivamente il medico strutturato che ha svolto l’attività o alle cui direttive ed indicazioni lo “specializzando” si è attenuto.
Il medico, quindi, deve personalmente verificare la regolarità e la correttezza delle annotazioni, proprio al fine di verificarne la conformità non solo con il proprio operato, ma anche con le direttive impartite, a seconda delle tipologia delle annotazioni, e solo all’esito di tale verifica l’atto può essere ritenuto completo dal punto di vista del suo rilievo pubblicistico e solo a partire da tale fase ogni successiva alterazione può integrare, sussistendone gli ulteriori requisiti normativi, la fattispecie di falso materiale.
La sentenza di Cassazione ribadisce che, per quanto il medico in formazione non può e non deve sostituirsi al medico strutturato, ben può (e deve) svolgere le attività in autonomia secondo le direttive impartite, anche riguardanti la stesura di atti pubblici, come la raccolta anamnesi e la compilazione di cartelle cliniche o di atti operatori. Il suo operato deve sempre essere controllato da un tutor, il quale di conseguenza ha la facoltà, anzi il dovere, di correggerlo, a condizione – talmente ovvia che non dovrebbe nemmeno servire esplicitarla – che le modifiche riportate rispecchino la realtà clinica, ma di certo allora non costituiscono un falso.
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