Abstract
Il rapporto della medicina legale con la “morte” è simbiotico vuoi per la particolarità della nostra specializzazione in cui la ricerca delle sue cause è un fondamento, vuoi perché i temi giuridici, etici e deontologici ad essa connessi, sono parte integrante della disciplina. Prendendo spunto da un articolo di Lancet, il nostro Davide Santovito propone alcune riflessioni sulla tematica dell’eubiosia: una buona morte come parte di una buona vita.
. . . .
La società moderna non parla più della morte. La morte è divenuta un tabù. La paura della morte non è affatto un dato costante nella storia, ma è una variabile culturale, direttamente proporzionata allo sviluppo della civiltà. Più avanza la scienza e più si teme e si rifiuta la realtà della morte (Epitteto. Manuale. Rusconi, Milano 1982).
Ciò dipende dal fatto che una società pienamente sviluppata, o in pieno sviluppo, come conseguenza della concezione scientifica e meccanica della vita, tende a negare la morte. La morte è ciò che accade agli altri, non a noi.
L’organizzazione sociale fa scomparire dalla vita quotidiana la presenza dei morenti (Doucet H. Al fiume del silenzio. Vita e morte: dialogo fra saggezza e scienza. SEI, Torino, 1992). L’idea stessa della morte è rimossa dalla nostra vita quotidiana, il morente è isolato, affidato agli operatori sanitari (Klubber-Ross E. La morte e il morire. Cittadella, Assisi 1984), con il rischio di perdere ogni sentimento di solidarietà umana (Baundry P. Une sociologie du tragique. Cerf Cujas, Paris, 1986).
L’emergenza COVID-19 ha purtroppo fatto spalancare gli occhi su questa realtà. Persone sole nel momento della diagnosi, del ricovero, delle cure e anche nel momento della morte. Ancora oggi chi ha avuto un lutto in famiglia ha il grande fardello della separazione senza saluto.
Vi sono poi le posizioni estreme: quale non accettazione della morte si aggredisce l’operatore sanitario, il sistema sanitario, entrambi rei di non aver impedito la morte stessa.
La morte, però, è un fatto inalienabilmente ed ineluttabilmente appartenente alla vita e così anche all’uomo e come fatto umano non può che accadere. Questo non è il problema. La morte è l’evento finale di un divenire nel tempo: il morire.
In un contesto come quello attuale ove la morte non ci appartiene, accade agli altri, e c’è il rifiuto stesso all’idea di morte, dove la morte accade ormai spesso in ambiente sanitario, per “deformazione professionale” siamo tentati subito di dare una risposta tecnico-legislativa ad ogni rifiuto delle terapie da parte del paziente. Così anche i clinici sono spesso spaventati da questo rifiuto.
Il medico ha, però, sempre di fronte un essere umano, con i suoi credo, con le sue convinzioni, con i suoi modi di concepire la vita. Il compito della medicina non è quello di dilazionare la morte ad ogni costo o dimostrare di aver tentato di dilazionarla ad ogni costo, ma di prevenirla quando prematura e, se non evitabile, quello di renderla pacifica e dignitosa (Defanti CA. Vivo o morto? La storia della morte nella medicina moderna. Zadig, 1999).
Il morire è un processo, è una via da percorrere insieme al morente per non lasciarlo solo, per evitare l’isolamento, il rifiuto, l’angoscia, la sofferenza ed il dolore, ma è pur sempre vita. E’ di questa vita che la Famiglia, la Società e la Medicina devono prendersi cura per renderla degna e, per quanto possibile, sazia, satolla di umanità sia per il morente che per chi insieme a lui si prepara alla separazione.
Questo approccio rende consapevoli del fatto che il morire non è la morte e che, pur anche sotto varie definizioni (fine vita, stato terminale…), sempre di vita si tratta e come tale deve essere rispettata, promossa, accettata con un atteggiamento biofilo. É un altro punto di vista, che le sole leggi di uno Stato non possono da sé sole colmare.
Allora, il morire è vita e non vi è ragione per cui non possa essere, fino all’ultimo, buona vita, ossia eubiosia.
Questo principio, che esalta la vita fino alla sua ultima goccia, è ben espresso da Francesco Bellino (La bioetica della “buona vita”. Città Nuova, Roma 2005) ed è il fondamento ed il cardine in grado di assistere il paziente ed il medico in tutte le decisioni riguardanti gli ultimi barlumi della vita. Ci si spinge oltre il sapere scientifico e specialistico, oltre la mera applicazione di una norma. L’uomo si riappropria della sua umanità, sia come singolo che come comunità, colma il vuoto che non può essere riempito dal sapere medico.
La portata dell’eubiosia è stata recentemente rappresentata anche nella rivista The Lancet con il “Report of the Lancet Commission on the value of death: bringing death back into life”, (Sallnow L, Smith R, Ahmedzai SH, Bhadelia A, Chamberlain C, Cong Y, Doble B, Dullie L, Durie R, Finkelstein EA, Guglani S, Hodson M, Husebø BS, Kellehear A, Kitzinger C, Knaul FM, Murray SA, Neuberger J, O’Mahony S, Rajagopal MR, Russell S, Sase E, Sleeman KE, Solomon S, Taylor R, Tutu van Furth M, Wyatt K; Lancet Commission on the Value of Death. Report of the Lancet Commission on the Value of Death: bringing death back into life. Lancet. 2022 Feb 26;399(10327):837-884. doi: 10.1016/S0140-6736(21)02314-X. Epub 2022 Feb 1. PMID: 35114146; PMCID: PMC8803389).
L’importante articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista sottolinea ancora una volta come sia retrocesso il ruolo della famiglia e della comunità una volta che la morte ed il morire sono diventati sconosciuti e le tradizioni si sono perse. Molto del valore della morte non è più riconosciuto nel mondo moderno, ma riscoprirlo può aiutare a prendersi cura del fine vita e migliorare la vita stessa. Il documento propone “cinque principi di utopia realistica”, una nuova visione della morte e del morire.
La vita, nella sua interezza e non solo quella biologica, si riappropria sempre di sé stessa e non si deve stare inerti. Accettare la morte come evento invincibile non significa essere arrendevoli al morire e dimenticare che questo percorso è ancora vita. Dobbiamo essere tutti consapevoli che solo una nuova cultura della vita e della morte può aiutare la Famiglia, la Società e la Medicina a compiere il proprio ruolo.
Il morire è un percorso, ma di vita, mentre la morte è la fine del percorso. Esserne consapevoli vuol dire riappropriarci della morte come entità della vita, sapendo di poter ancora usufruire di quei brevi momenti e barlumi di vita, che portano a quell’esito inevitabile.
Questo significa che se non possiamo assolutamente evitare che la vita finisca, per lasciare il posto alla morte, possiamo invece influenzare quel percorso e renderlo più sereno, più dignitoso. Ecco allora che la morte perde quel connotato di terrore, siccome siamo consapevoli che il percorso verso la morte non è la morte stessa e quindi lo possiamo rendere meno angosciane, meno solitario e ridurre la paura che la morte fa.
Per quanto mi è concesso, consiglio a tutti i Colleghi la lettura del libro di Bellino, ma con un’impostazione d’animo più da umanista/filosofo che da tecnico-scienziato. Allora si scoprirà quanto della legge 219/2017 fosse già scritto nel 2005 e quanto del Report del Lancet Commission abbia avuto basi solide già all’inizio del nuovo millennio nella nostra cultura.
VUOI APPROFONDIRE QUESTO ARGOMENTO?
Leggi anche: Morte Volontaria Medicalmente Assistita: un dossier