Recenti fatti di cronaca hanno messo sotto i riflettori la tematica dello sciopero della fame in carcere. Quali i doveri del medico nei confronti di questi detenuti.
Privazione della libertà personale, diritti ed autodeterminazione dei reclusi
La privazione della libertà personale è sempre una questione molto delicata e questa estate è entrata in modo preponderante nelle cronaca con i fatti accaduti nel carcere di Torino (vedi), dove una detenuta si è fatta morire di sete e di fame.
Se è giusto scontare la pena a seguito dei reati commessi, così come prevede il nostro ordinamento, non è assolutamente giusto travalicare l’umanità delle persone sottoposte alla detenzione, altrimenti si cadrebbe fuori dal diritto, nella tortura.
Questo aspetto è ben noto a tutti i medici che hanno il compito di assistere e curare i soggetti privati della libertà personale che, però, rimangono gli unici detentori del proprio personalissimo diritto di decidere quali scelte operare in merito alla propria salute. Tale libertà in termine tecnico si chiama autodeterminazione ed è inoltre ben sancita dal a legge 219 del 2017, valevole per chiunque. Legge che chiarisce come l’idratazione e la nutrizione artificiale sono trattamenti terapeutici.
Tuttavia, le persone in stato di restrizione della libertà personale hanno un limite anche a questo diritto personalissimo e in questo tema sorgono problematiche bioetiche di profonda riflessione, che in questo sito non possono essere sottaciute.
La bilancia dei diritti è molto difficile da tenere in equilibrio, soprattutto per il medico coinvolto in prima persona nel garantire, o meglio nel tentare, che ogni singolo cittadino detenuto nelle carceri abbia sempre tutelata la propria salute.
L’assistenza del medico
Il medico però non è solo: il nostro codice deontologico prevede appositamente quale comportamento deve adottarsi affinché non si travalichi il senso di umanità e sia garantita al detenuto quell’assistenza di cui lui necessita anche nel caso in cui le sue scelte, se consapevoli e come tali non calpestabili dal medico, mettono a rischio la propria incolumità e persino la sua vita.
Se il dovere del medico è quello di tutelare la vita, sollevare dal dolore e dalla sofferenza, è anche vero che tale dovere deve essere assolto secondo principi di non discriminazione e di libertà e dignità della persona, che sono il cardine della relazione di cura tra medico e paziente.
Questi presupposti, recita il nostro codice, devono essere rigorosamente rispettati, tanto che non è ammesso un trattamento sanitario senza un preventivo consenso del paziente (salvo i casi previsti dalla legge per i TSO) e neppure abbandonare a sé stessa una persona in condizioni di fragilità , come può essere chi é privato della libertà personale.
I casi recenti accaduti nel carcere torinese fanno sorgere sgomento ed incredulità , ma è bene che si sappia che il medico, anche di fronte ad atti rischiosi per il detenuto come non alimentarsi o non bere, ha di fronte a sé scelte non facili da prendersi, come appunto non poter intervenire.
Le modalità di intervento del medico: informazione e assistenza
Tuttavia, se il soggetto è capace, il medico ha alcune possibilità di intervento, relativo, che gli consentono di non abbandonare la persona detenuta.
Il primo è l’informazione sulle conseguenze delle scelte che la persona attua, soprattutto in caso di rifiuto protratto.
Il secondo è l’assistenza continua evitando iniziative costrittive o procedure coattive di alimentazione o nutrizione artificiale; il terzo è documentare, tracciare e rendere trasparente tutta la sua attività ; il quarto è reiterare sempre le informazioni sullo stato di salute e proporre la ripresa dell’alimentazione e della idratazione.
Di fronte al rifiuto della persona carcerata di nutrirsi e di bere non vi sono altre vie per il medico, pena il sacrificio dei principi ispiratori del nostro rapporto di fiducia con la persona assistita.
Se quindi da un lato è fondamentale rispettare il principio di autodeterminazione, dall’altro bisogna saper soppesare altri due principi: quello di beneficialità , secondo cui il medico agisce sempre con lo scopo di arrecare un beneficio, il miglior interesse, alla persona; quello di non maleficenza, secondo cui il medico non deve mai arrecare danno alla persona.
Questi principi non sono però assoluti e devono trovare un giusto punto di equilibrio, considerando che il valore “salute” non è l’assenza di malattia ma uno stato di benessere fisico, psichico e sociale.
Come si può comprendere, una persona detenuta ben può non sentirsi “bene” pur in assenza di una malattia e scegliere in piena consapevolezza, e solo così, di non alimentarsi e non bere. Tale risolutezza non può essere vinta dal medico con trattamenti coercitivi contro la volontà della persona stessa.
Il principio di giustizia
L’ultimo principio è quello di giustizia, forse per noi, il più complesso da comprendere e che richiede alti livelli di responsabilità in chi lo gestisce. Tale principio riguarda le risorse e la loro gestione sul singolo individuo. Ebbene, secondo tale principio ad ogni persona detenuta deve essere garantita l’assistenza medica e la cura ed in virtù di questo ultimo cardine bioetico il medico non può, e non deve, rimanere inerte davanti a chi rifiuta le cure o, peggio, abbandonarlo a sé stesso.
Non è quindi un compito eticamente facile assistere una persona privata della libertà personale per i profondi moti che smuovono la coscienza di chi ha il compito di curare.
Il limite della libertà di autodeterminazione
Un ultimo appunto è doveroso. La persona privata della liberta personale ha un limite alla propria libertà di autodeterminazione, là dove le sue scelte rappresentino per lui una sicura strada verso la morte. Quindi, soprattutto in questi casi, il medico ha l’obbligo di riferire al Magistrato tutte le condizioni del suo assistito in carcere.
I fatti accaduti nel carcere di Torino vanno ben oltre la mera cronaca cittadina. È bene che ogni cittadino conosca le implicazioni etiche che il medico deve affrontare lontano da idee preconcette o da ideologie.
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