Abstract – Un noto quadro patologico forense noto come “starvation” è stato considerato dai Trattati e dalla Giustizia internazionali come crimine di guerra e contro l’umanità. Degli interessanti aspetti di questo fenomeno se ne è occupata una ricerca che ha visto coinvolti alcuni studenti in tirocinio della Facoltà di Medicina di Torino coadiuvati dalla Dott.ssa Claudia Viteritti (specialista in formazione, Scuola di Specializzazione in Medicina Legale Torino) e dal nostro Davide Santovito. Nella prima parte dell’esposizione ci si interesserà degli aspetti giuridici mentre nella seconda di quelli di tipo patologico forense.
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Nel corso del tirocinio presso la S.C. Medicina Legale U. della AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, diretta dal Prof. Giancarlo Di Vella, gli studenti di Medicina e Chirurgia, Allaria Emanuele (VI anno), Borgarelli Edoardo (V anno), Calculli Laura (V anno), Camillieri Eleonora (V anno), Candiotto Matteo (V anno), Castellani Giacomo (V anno), Cavallone Paola (V anno), Fulco Francesca (V anno), Rissone Federico (VI anno), hanno svolto una ricerca sul quadro patologico forense conosciuto come starvation, noto soprattutto come forma di maltrattamento in ambito pediatrico. Tuttavia, dalle sedi degli odierni conflitti bellici ricorrenti in prossimità dei confini europei, ricorrono immagini e fatti che la società civile sperava di aver archiviate nella memoria quali esempi di campi di sterminio della Grande Guerra e la Seconda Guerra Mondiale. Non a caso anche la stampa internazionale e gli organi istituzionali sovranazionali hanno recentemente sollevato questioni umanitarie su quanto sta accadendo negli attuali scenari di guerra, anche alla luce delle strategie belliche poste in essere tra le quali quella della sottrazione degli alimenti e delle cure alla popolazione civile vittima del conflitto. Configurandosi come crimine di guerra contro l’umanità, anche questa attuale tipologia di starvation giungerà all’attenzione della Medicina Legale, la quale con il suo bagaglio di competenze potrà fornire un valido supporto tecnico alle Istituzioni internazionali preposte ad accertare le responsabilità e nella difesa del Diritto internazionale a difesa dell’essere umano.
Il Diritto Internazionale
Costringere il nemico alla fame ha sempre fatto parte delle strategie di guerra e, fino a tempi relativamente recenti, affamare i civili e i combattenti era considerato da alcuni un mezzo lecito per raggiungere la vittoria. Nell’ambito del diritto internazionale ed ai fini del presente contributo, è opportuno precisare che il termine anglosassone Starvation sia traducibile come fame o inedia. La Starvation, quindi, identifica la privazione dei beni di prima necessità (viveri, medicinali, carburante ed altre fonti di sussistenza) perpetrata a danno della popolazione civile. Alla fine dell’800 tale “pratica” era legittimata dall’art. 17 del Codice Lieber (1863), questo formulato durante la guerra di secessione americana, destinato alle truppe degli Stati del Nord su richiesta del Presidente Abramo Lincoln e primo tentativo di codificare leggi e costumi in tempo di guerra. Nonostante voci contrarie a questa barbarie si fossero levate in ambienti internazionali già al termine della Prima Guerra Mondiale, solo dopo la quarta Convenzione di Ginevra, con la stesura e l’adozione dei Protocolli Aggiuntivi (PA) del 1977 per i conflitti internazionali e non internazionali, furono approvate le prime norme convenzionali specifiche volte a stabilire un chiaro divieto di affamare intenzionalmente i civili in guerra. Nello specifico l’art. 54 (PA I per i conflitti internazionali dell’8 giugno 1977), dal titolo emblematico “Protezione dei beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile”, recita “1. È vietato, come metodo di guerra, far soffrire la fame alle persone civili. 2. 2. È vietato attaccare, distruggere, asportare o mettere fuori uso beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, quali le derrate alimentari e le zone agricole che le producono, i raccolti, il bestiame, le installazioni e riserve di acqua potabile e le opere di irrigazione, con la deliberata intenzione di privarne, in ragione del loro valore di sussistenza, la popolazione civile o la Parte avversaria, quale che sia lo scopo perseguito, si tratti di far soffrire la fame alle persone civili, di provocare il loro spostamento o di qualsiasi altro scopo”, per quanto siano discusse alcune deroghe.
All’art. 14 “Protezione dei beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile” (PA II per i conflitti non internazionali dell’8 giugno 1977) si leggono “È vietato, come metodo di guerra, far soffrire la fame alle persone civili. Di conseguenza, è vietato attaccare, distruggere, asportare o mettere fuori uso, con tale scopo, beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, quali le derrate alimentari e le zone agricole che le producono, i raccolti, il bestiame, le installazioni e le riserve di acqua potabile, e le opere di irrigazione”. Di conseguenza, l’attuazione di campagne di distruzione dei beni agri-colturali o il bombardamento delle riserve di cibo e acqua, sebbene siano tutte situazioni che teoricamente potrebbero non causare morti fra i civili, sono potenzialmente perseguibili in quanto, essendo la parte lesa molto spesso già defedata da situazioni preesistenti, la difficoltà nel garantire alla popolazione beni di prima necessità comporta inevitabilmente una situazione di carestia, malnutrizione e morte di stenti.
Oltre al divieto diretto di affamare scientemente i non combattenti, il diritto internazionale umanitario contemporaneo prevede l’obbligo di consentire il passaggio tempestivo e senza ostacoli di aiuti umanitari che soddisfino le condizioni di imparzialità, indipendentemente dalle ostilità, per quanto è previsto che la parte belligerante in controllo mantenga tuttavia la facoltà di supervisionare la distribuzione dei beni. La tutela della popolazione civile ed il diritto alla sopravvivenza e alla vita sono anche garantiti dall’art. 70 “Azioni di soccorso” del PA I. Nel 1998 fu approvato dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite lo “Statuto di Roma” (17 luglio 1998), entrato in vigore il 1° luglio 2002 dopo tutte le ratifiche necessarie dei 168 Stati firmatari. Nel Preambolo, nel chiarire lo spirito fondante del documento, a imperitura memoria, è chiaramente riportato: “memori che nel corso di questo secolo, milioni di bambini, donne e uomini sono stati vittime di atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità…”. Bisogna altresì sottolineare come la riprovazione e l’antigiuridicità di comportamenti e/o atti posti in essere per affamare una popolazione facciano parte anche di quei giudizi moralmente obbligatori e doverosi che trovano la propria fonte di diritto nelle consuetudini previste dal diritto internazionale, così come aveva già stabilito lo Statuto della Corte Internazionale di Giustizia del 26 giugno 1945 all’art. 38, comma 1 b, c: “La Corte, cui è affidata la missione di regolare conformemente al diritto internazionale le divergenze che le sono sottoposte, applica…b. la consuetudine internazionale che attesta una pratica generale accettata come diritto; c. i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili;”.
La Starvation è quindi da considerarsi una pratica inaccettabile, vietata e punita dal Diritto internazionale. Lo Statuto di Roma è la base giuridica più completa che definisce i crimini di genocidio (art.6), i crimini contro l’umanità (art.7), i crimini di guerra (art. 8). Questi articoli hanno poi armonizzato le previsioni dei codici penali nazionali in merito alla starvation, riconoscendola come atto criminale sia come metodologia di guerra sia come impedimento volontario degli aiuti umanitari, indipendentemente dal tipo di conflitto.
Risulta interessante approfondire come, in base all’estensione dei danni e alle ideologie di fondo, la Starvation possa configurarsi all’interno di tre tipologie di reato: tortura, sterminio e genocidio:
- In quanto causa di grave dolore e sofferenza, la starvation è una forma di tortura; essendo problematico stimare l’entità del dolore necessario affinché la condotta criminale possa qualificarsi come tortura, secondo il diritto internazionale consuetudinario è sufficiente che l’atto illecito provochi sofferenze estreme e gravi lesioni corporali (cioè insufficienza d’organo, severa compromissione sistemiche, ecc. exitus). La“Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”, adottata dall’assemblea generale dell’ONU il 10 dicembre 1984 al fine di obbligare gli Stati ad impedire e punire la tortura, non richiede che l’inflizione di dolore o sofferenza debba essere visibile, né che duri per un periodo di tempo predefinito. Per caratterizzare invece, l’elemento soggettivo, l’art. I della Convenzione fornisce un elenco di finalità connesse alla perpetrazione della tortura, quali: intimidazione, confessione, ottenimento di informazioni o punizione. Inoltre, in conformità con l’art. 7 della ICC (Corte Criminale Internazionale, un tribunale per i crimini internazionali con sede nei Paesi Bassi istituito durante il Patto di Roma nel 1948), la tortura richiede che la vittima sia sotto la “custodia o il controllo dell’accusato” (come i prigionieri di guerra). Più recentemente, il Protocollo di Istanbul (9 agosto 1999), richiamando la Convenzione contro la Tortura delle Nazioni Unite del 1984, definisce la tortura “qualunque atto che per mezzo di gravi dolori o sofferenze, o fisiche o mentali, sia intenzionalmente inflitto ad una persona per scopi quali ottenere da questa o da terzi informazioni o una confessione, punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o si sospetta che abbia commesso, o intimidire o costringere essa o una terza persona, per una ragione qualsiasi basata su una discriminazione di qualunque tipo, quando tale dolore o sofferenza è inflitta da o su istigazione di o con il consenso o il tacito consenso di un pubblico ufficiale o di altra persona che agisce nell’ambito delle sue funzioni ufficiali. Non indica il dolore o la sofferenza derivante solo da sanzioni legittime, insito in esse o ad esse conseguente”. In tali termini si esprime anche lo Statuto di Roma all’art. 7 “Crimini contro l’umanità” e all’art. 8 “Crimini di guerra”. In considerazione di questi elementi, la Starvation, causando gravi dolori e sofferenze, mentali e fisiche, deve ritenersi una forma di tortura, sottesa dall’animus ledendi e non già da mera negligenza.
- Sebbene la qualifica di Starvation non preveda necessariamente la morte, le conseguenze estreme potrebbero far configurare la ipotesi di omicidio, fatta salva la dimostrazione del nesso di causalità tra la condotta criminale e l’evento esiziale. L’elemento soggettivo dell’omicidio richiede l’intenzione di uccidere o, in alternativa, la consapevolezza dell’imputato che le sue azioni porterebbero ragionevolmente alla morte, come affermato l’art. 30 dello Statuto di Roma: “1. Salvo diversa disposizione, una persona non è penalmente responsabile e può essere punita per un crimine di competenza della Corte solo se l’elemento materiale è accompagnato da intenzione e consapevolezza […] 3. Vi è consapevolezza ai sensi del presente articolo quando una persona è cosciente dell’esistenza di una determinata circostanza o che una conseguenza avverrà nel corso normale degli eventi. «Intenzionalmente» e «con cognizione di causa» vanno interpretati di conseguenza”.
- Qualora la Starvation coinvolga una vasta gamma di vittime, potrebbe ascriversi alla ipotesi dello “sterminio”, previsto dall’art. 7 dello ICC tra i reati qualificati come crimine contro l’umanità, quale reato di omicidio applicato su “grande scala”: “in modo particolare, il sottoporre intenzionalmente le persone a condizioni di vita dirette a cagionare la distruzione di parte della popolazione, quali impedire l’accesso al vitto ed alle medicine”.
- Considerando la natura della fame di massa e il contesto in cui generalmente si verifica, in determinate circostanze, può qualificarsi come genocidio in quanto, in conformità con l’Art. II della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948), insieme di “atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale…” a ricomprendere ogni atto che determini “lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo” e non solo l’uccisione degli stessi. In tal senso si esprime anche l’art. 6 dello Statuto di Roma.
Per quanto su premesso, affinché si configuri il reato, è necessario che gli atti siano stati compiuti con intenzionalità, pertanto, all’interno del procedimento giudiziario per Starvation diventa fondamentale dimostrarel’effettiva intenzione dell’autore. Quest’ultima è più evidente per talune cause, quali ad esempio la mancanza di cibo e acqua nelle strutture di detenzione militare: in questo contesto, l’accusa deve concentrarsi sulla relazione tra le azioni dell’imputato e gli effetti che queste hanno sulla popolazione ristretta, e in particolare, sulla prevedibilità di quest’ultimi. Utile a tal fine è la cosiddetta “analisi della catena di causalità“, vale a dire un’analisi accurata che si concentra sul contesto, sulla causa direttamente responsabile della carenza dei beni di prima necessità, sull’effetto di quest’ultima e sulla consapevolezza circa le conseguenze dell’accusato. A differenza della prova diretta, la “prova circostanziale” richiede che gli altri elementi di prova a supporto in proprio possesso conducano insieme a dedurre che un determinato risultato fosse previsto o che si sarebbe verificato nel corso naturale degli eventi.
Per quanto riguarda l’accertamento dell’elemento mentale, l’approccio della ICC differisce da quello seguito dal TPIY (Tribunale Penale Internazionale per l’ex’Yugoslavia) e dall’ICTR (Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda). Secondo la Corte Penale Internazionale la mens rea del reato, come sancito dall’art. 30 dello Statuto (elementi psicologici), comprende i casi di dolus directus di primo e secondo grado. Nei confronti dei tribunali ad hoc, invece, è sufficiente che l’autore del reato sia consapevole che la sua condotta «poteva causare» lesioni o sofferenze rilevanti.
Nei casi in cui la Starvation si sia verificata in relazione alla conduzione di una pratica o di un atto lecito, sotto forma di “danno eccessivo” indiretto, sarà necessaria un’analisi più approfondita. In questi casi, è ragionevole ritenere che non verrebbe riconosciuta alcuna responsabilità qualora l’autore, intraprendendo le sue attività lecite che hanno determinato Starvation, abbia:
- rispettato i principi e i divieti pertinenti del diritto internazionale umanitario, come ad esempio, il divieto di punizione collettiva;
- mitigato e alleviato la sofferenza dei civili, non ostacolando l’accesso alle organizzazioni umanitarie.
Alleghiamo qui sotto in forma scaricabile i documenti principali citati nell’articolo
Altra bibliografia
- D’Alessandra F., Gillett M. The war crime of starvation in non-international armed conflict, 2019.
- Lieber Code, 1863.
- World Peace Foundation. The Crime of Starvation and Methods of Prosecution and Accountability (10.11.2023)
- Michelangelo Franceschini. The Crime of Mass Starvation: Prosecution and Legal Strategies in International Law. Tesi di Laurea, aa 2021/2022. Dipartimento di Giurisprudenza, Cattedra di Diritto Internazionale. LUISS.
To be continued…
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