L’argomento del suicidio assistito è già stato trattato sulle pagine di questo sito con più contributi (Santovito D. CNB sul “suicidio assistito”: e il medico legale? – Marozzi F. Fine vita, suicidio assistito, eutanasia: un sondaggio – Marozzi F. Caso Cappato: la Corte Costituzionale chiama il Legislatore a decidere sull’aiuto al suicidio – Marozzi F. Suicidio assistito: cosa pensa la Corte Costituzionale tedesca – Santovito D. CNB su carcere, DAT e sciopero della fame).
La Corte Costituzionale torna sul 580 CP
Oggi ritorniamo nuovamente a riflettere su questa tematica alla luce della recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 135/2024 che ha nuovamente discusso un tema che accende i dibattiti e le coscienze, o meglio torniamo sulla questione di costituzionalità dell’art. 580 c.p. (Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni.
Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio), come già a suo tempo modificato dalla stessa Corte con la sentenza costituzionale n. 242/2019.
Oggi si vogliono riportare i passaggi più significativi, senza alcun commento che potrà seguire nei contributi successivi, sperando così di facilitarne la lettura integrale.
Ancora una sollecitazione al Legislatore
La Corte nella sentenza sollecita nuovamente il Legislatore ad attuare quelle riforme normative che siano in grado di dare risposta al suicidio assistito. È il Legislatore che ha il compito di offrire una tutela equilibrata a tutti i diritti dei pazienti che versano in situazione di intensa sofferenza, avendo una significava discrezionalità nell’ambito della cornice delineata dalla Corte in questi anni (ordinanza n. 207 del 2018 e sentenza n. 242 del 2019).
La lettura della sentenza mette in rilievo i principi cardine che fondano, dopo la seconda guerra mondiale (e ancora oggi devono essere sempre richiamati perché dell’oblio non abbiam bisogno), il nostro vivere civile e che danno portanza e struttura, secondo chi scrive qui, a tutto l’impianto dei Giudici della Corte Costituzionale:
I principi cardine
- La tutela della vita umana si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti della persona; diritto inviolabile che riassume in sé l’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana ed è il presupposto per l’esercizio di tutti gli altri diritti inviolabili;
- Ogni paziente capace di assumere decisioni libere e consapevoli è titolare di un diritto fondamentale ad esprime il proprio consenso informato a qualsiasi trattamento sanitario ed anche a rifiutarlo, in assenza di una previsione specifica di legge che lo renda obbligatorio, anche quando tale trattamento sia necessario alla sopravvivenza;
- La persona umana ha un valore a sé e non è un semplice mezzo per il soddisfacimento di un interesse collettivo;
- Mantenere intorno alla persona una cintura di protezione contro scelte autodistruttive assolve allo scopo di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere;
- L’art. 580 c.p. deve essere oggi inteso come funzionale a proteggere la vita delle persone rispetto a scelte irreparabili che pregiudicherebbero definitivamente l’esercizio di qualsiasi ulteriore diritto o libertà, al fine di evitare che simili scelte, collegata a situazioni, anche solo momentanee, di difficoltà o sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate, possano essere indotte, sollecitate o anche solo assecondate da terze persone, per le ragioni più diverse;
Libertà della persona e risoluzioni del paziente ma no a personalismi
Leggendo in modo così sintetico quanto espresso dalla Corte ben si comprende come la libertà della persona e le sue risoluzioni assunte consapevolmente sono l’espressione del fondamentale diritto di autodeterminazione della propria vita, che però deve essere contemperato dalla necessità di evitare eccessivi personalismi che, in momenti di sofferenza e fragilità sì da inficiare quel livello di consapevolezza, possano comportare scelte del tutto irreparabili e/o arbitrarie, magari indotte o sollecitate da altri.
Ora veniamo alla sentenza.
Il fatto
La Corte costituzionale è chiamata nuovamente ad esprimersi sulla legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, come modificato dalla Corte costituzionale con la sentenza 242/2019 su impulso del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze, con ordinanza del 17/01/2024.
Il GIP è stato chiamato a decidere sulla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze nei confronti di tre indagati per il delitto di cui all’art 580 c.p. per aver organizzato e poi materialmente eseguito l’accompagnamento di un malato presso la clinica svizzera dove lo stesso è deceduto in seguito alla procedura di suicidio assistito.
Dalla sentenza emerge che il paziente era affetto da sclerosi multipla che, diagnosticata nel 2017, sul finire del 2021 era andata incontro ad un grave peggioramento progressivo sfociato nel 2022 con impossibilità a muoversi dal letto, con totale immobilizzazione anche degli arti superiori, salvo una residua capacità di utilizzare il braccio destro. Tuttavia, il paziente non era sottoposto a trattamenti di sostegno vitale come la ventilazione meccanica, la nutrizione, l’idratazione artificiale, né era sottoposto a terapie farmacologiche salvavita o richiedeva interventi assistenziali come le manovre evacuative. Il malato iniziava quindi a maturare il proprio proposito di porre fine alla sua vita per le sofferenze derivanti dalla malattia, per cui fu trasportato presso una clinica svizzera da due imputati e in data 08.12.2022, utilizzando il braccio destro, assumeva per via orale un farmaco letale.
La mancanza della necessità di “trattamenti di sostegno vitale” nel caso in esame
Nel caso di specie, rispetto alle previsioni dettate dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, mancava il requisito della dipendenza da “trattamenti di sostegno vitale”.
Su tale fatto a cui è stato chiamato a giudicare, il GIP rilevava che l’assenza di una definizione di “trattamenti di sostegno vitale” sia nell’ordinanza n. 207/2018 che nella sentenza n. 242/2019 genera plurimi dubbi di legittimità costituzionale così rappresentati:
- Irragionevole disparità di trattamento tra situazioni concrete sostanzialmente identiche;
- Ingiustificata lesione della libertà di autodeterminazione del malato nelle scelte delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalla sofferenza;
- Violazione del principio della dignità umana;
La risposta dei Giudici delle Leggi
Alle doglianze di illegittimità sollevate dal GIP, così risponde la Corte costituzionale:
La consapevolezza del dolore da parte della Corte
La Corte è consapevole della intensa sofferenza e prostrazione che comportano le malattie degenerative, ma non ha riconosciuto un generale principio di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, ma ha ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che hanno già il diritto di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurare la sopravvivenza, come previsto dalla legge n. 219 del 2017; in assenza di un intervento legislativo, il requisito della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale svolge un ruolo cardine nella logica delle soluzioni adottate nell’ordinanza n. 207/2018 e nelle sentenza n. 242/2019; tale ragione non si estende a pazienti che non dipendono da trattamenti di sostegno vitali, i quali non hanno la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure; le due condizioni sono quindi differenti;
Ampliamento dell’autodeterminazione terapeutica
Vi è una nozione più ampia di “autodeterminazione terapeutica”: se da un lato per attuare le terapie il medico ha necessità del consenso informato del paziente, dall’altro è anche vero che il paziente ha il diritto di rifiutarle. Quest’ultimo profilo è intimamente legato alla tutela della dimensione corporea della persona contro ogni ingerenza esterna e quindi alla sua integrità psicofisica, che si caratterizza come libertà “negativa” del paziente a non subire interventi indesiderati sul corpo e nel corpo.
Tuttavia, se la decisione su quando e come terminare la propria esistenza possa considerarsi inclusa tra quelle più significative della vita, è pur vero che vi sono dei rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, proprio dovendo adempiere al dovere di tutelare la vita umana. Dal punto di vista costituzionale non vi è distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti dell’attivazione di tali trattamenti, che però può rifiutare: in entrambi i casi la Costituzione riconosce al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti di terzi;
La tutela della dignità umana
La tutela della dignità umana parte dall’assunto che nell’ordinamento ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle condizioni in cui la vita si svolga e quindi il divieto di cui all’art 580 cp non può costringere il paziente a vivere una vita, oggettivamente, non degna di essere vissuta. Differente discorso vale per la nozione soggettiva di dignità correlata alla concezione che il paziente ha della propria persona e al suo interesse a lasciare una certa immagine di sé. Tuttavia, tale nozione di dignità finisce in effetti per coincidere con quella di autodeterminazione.
Si tralascia la quarta questione in merito alla CEDU, invitando il lettore a prenderne nozione dalla lettura diretta della sentenza.
Che cosa sono i “trattamenti di sostegno vitale”
La Corte, al termine della sentenza, affronta la nozione di “trattamenti di sostegno vitale” che deve essere interpretata dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni in conformità alla ratio delle decisioni, ma specifica che tali procedure dovranno essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi della sentenza n. 242/2019, se si rivelano in concreto:
- Necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente;
- Lo loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente;
- La morte, in loro assenza o interruzione, avverrebbe in breve lasso di tempo;
In tale ambito la Corte, rammentando che il paziente ha il diritto di rifiutare ogni trattamento sanitario sul proprio corpo indipendentemente dal grado di complessità tecnica o invasività, include quelle procedure sia prestate normalmente da personale sanitario e la cui esecuzione richiede particolari competenze specifiche, ma anche quelle che potrebbero essere apprese da familiari o caregivers che si facciano carico dell’assistenza del paziente.
Quindi, la Corte ribadisce che, insieme ai trattamenti di sostegno vitale, è di cruciale rilievo:
- l’esistenza di una patologia incurabile;
- la permanenza di condizioni di piena capacità del paziente – evidentemente incompatibili con una sua eventuale patologia psichiatrica;
- la presenza di sofferenze intollerabili e non controllabili attraverso appropriate terapie palliative, di natura fisica o comunque derivanti dalla situazione complessiva di intensa “sofferenza esistenziale” che si può presentare, in particolare, negli stati avanzati delle patologie neurodegenerative. Sofferenza, quest’ultima, che peraltro può risultare refrattaria a qualsiasi terapia palliativa, non potendosi considerare la sedazione continua profonda come un’alternativa praticabile rispetto a pazienti che non versino ancora in condizioni terminali, o che, comunque sia, rifiutino tale trattamento.
L’importanza degli accertamenti
Nuovamente la Corte sottolinea come sia necessario rispettare le condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019, per prevenire (la Corte non usa il lemma alternativo “evitare”) il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, per cui è necessario il coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale (non regionale, mai richiamato nella sentenza), che deve accertare la sussistenza delle condizioni sostanziali di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito, oltre a verificare le relative modalità di esecuzione, così da evitare abusi in danno a persone vulnerabili, garantire la dignità del paziente evitandogli sofferenze, richiedendo il necessario parere del comitato etico territorialmente competente.
La Corte evidenzia anche che l’eventuale mancata autorizzazione alla procedura, da parte del servizio sanitario pubblico, ben può essere impugnata di fronte al giudice competente, secondo le regole ordinarie.
l richiamo alla 38/2010
Infine non può sottacersi il forte richiamo alla legge n. 38 del 2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore:
“affinché, sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza”,
dovendo sempre assicurare: “anche attraverso la previsione delle necessarie coperture dei fabbisogni finanziari, che «l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza – in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010 – sì da porlo in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza”.
La Corte costituzionale dichiara quindi non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art 580 cp, sollevate dal GIP di Firenze.
Qui puoi leggere e scaricare la sentenza in forma completa:
Il ruolo della medicina legale
La lettura della sentenza della Corte costituzionale è intrisa di concetti, principi e nozioni che la nostra Disciplina da sempre studia ed affronta anche al letto del malato, per e con il malato e deve farsi carico di fornire tutte quelle specifiche dottrinarie e di pensiero bioetico che emergono leggendo quanto scritto dai Giudici costituzionali.